giovedì 30 dicembre 2010

C'è critico e critico



Ho rivisto da poco "Ratatouille" e la recensione di Ego è uno dei momenti più alti del film.
Il giorno dopo ho letto il bellissimo ritratto di Roberto Mariani contenuto in "Artisti, pazzi e criminali" di Osvaldo Soriano.
Anche sulla vita di Mariani, poeta e narratore, la figura del critico, in particolare di un tale Avelino Castro, ha gettato la sua ombra. Racconta Soriano che Mariani raccoglieva in un quaderno tutte le recensioni che lo riguardavano anche per l'idiozia di cui le stesse erano un campionario.
(Non per questo non ne soffriva.) Ecco qualche passo.

"In un brano del racconto di Mariani si legge:

Quando Muguette tentò di serrarlo alla sua riva, di legarlo di più alla civettuola garconniere (...)
il paragrafo infiammò l'erudizione di Castro, il quale puntualizza nella sua critica:

Non riusciamo a spiegarci cosa intende dire l'autore, quando scrive che Muguette tentò di serrarlo alla sua riva, perché Muguette, essendo donna, non poteva essere mare, quindi avere sponde.

Quanto a un paragrafo che dice:
L'assenza di Muguette riempì il margine bianco della sua vita
Castro annota:
Se il margine era bianco, è chiaro che venne riempito. Se venne riempito, non era più bianco. Quello che non viene scritto non sta scritto. Sono verità lapalissiane."
Poi c'è una persona che, ai tempi della Scuola Holden, ci ha stregato con l'arte della critica cinematografica mostrandoci come può essere la più elevata forma d'amore per un'opera, come la critica si fa filosofia, interpretazione del pensiero, disvela le forme dell'arte mostrandone i mille aspetti visibili solo all'occhio del mago. C'è chi l'opera la concepisce e chi la attraversa.
Questa persona si chiama Bruno Fornara.
Ed è uno di quei fortunati incontri che ti cambiano la vita.

sabato 25 dicembre 2010

Quattro o cinque cose che ho imparato

Questi primi giorni di vacanze sono stati utili quanto a insegnamenti:

- inutile vagheggiare di traslochi in altre latitudini, più calde, meno umide: i virus della scuola materna vanno fortissimo ovunque (ci giungono dati dal Lazio, dalla Puglia, dalla Sicilia)

- alle recite di Natale parteciperà sempre una piccola élite di superstiti, inutile distribuire le parti del copione. Più realistico mettere in scena un Beckett con due o tre personaggi. Meglio ancora un monologo (c'è sempre un Gastone, un fortunato fin dalla tenera età).

- Babbo Natale non si ammala mai, tira fuori delle risorse impensabili e trova sempre quello che cerca. Forse imbottisce le renne di antibiotici ma di fatto non sgarra.

- chi manda auguri a tutta la rubrica (e lo scopri perché è un ex o un amico che hai sempre chiamato Gigi e che invece nell'sms si firma con nome e cognome) non merita risposta. Gli auguri o si inviano sentiti o non si inviano.

- nelle vecchie riviste sepolte sotto la montagna delle nuove e riesumate per pulire i vetri o raccogliere gli scarti dei carciofi, ecc. si celano articoli interessantissimi che a una prima lettura erano sfuggiti. (ma le hai mai aperte certe riviste? così nuove, così intonse, così poco spiegazzate...suggeriscono di giorni in cui sono state ignorate)

- le richieste degli adulti a Babbo Natale sono più difficili da esaudire. Io per esempio vorrei solo andare al cinema con A. e per ora non siamo ancora riusciti...

(to be continued)

domenica 19 dicembre 2010

Dò i numeri

Ultimate, a forza di straordinari notturni davanti al portatile, due sceneggiature. In tre a scrivere, per fortuna. Una la persona che le dovrà leggere (così ci auguriamo, vedi post precedente).
Fuori -10 C. Dentro casa, 11° virus dell'anno che il puffo si è portato dall'asilo. Quattro la media delle ore di sonno per notte.
Quindici e quaranta l'ora di arrivo dell'aereo che domani porterà i nonni romani a Torino per le feste.
Tra cinque e sei le cose che dimentico di fare al giorno (speriamo di non dimenticare i nonni a Caselle).
Infinita la speranza di uscirne vivi.

martedì 14 dicembre 2010

S'io fosse

Negli ultimi giorni (abbastanza complessi da vivere o meglio da affrontare rimanendo vivi) mi sono trovata ogni tanto a fantasticare.
Come vorrei essere il pediatra di mio figlio che ho inseguito telefonicamente come non farei neanche con Christian Bale se ne avessi il numero
O l'elettricista che ci ha detto di svitare la lampadina e richiamarlo la settimana seguente. 
O il tecnico della caldaia che abbiamo implorato per settimane di venirsi a prendere questi 100 euro per il controllo annuale.
Come vorrei essere una di quelle persone che non soffriranno mai la sindrome da abbandono professionale.
Invece chi scrive storie è sempre lì a proporle o a giustificarle o a proteggerle. Spesso in difesa, mai in attacco. Conoscono sceneggiatori che non spengono il cellulare neanche la notte. Si sa mai che il produttore, colto da insonnia, venga folgorato dalla nostra idea. Bisogna farsi trovare pronti.

Il "come vorrei essere" mi ha riportato alla memoria una poesia studiata ai tempi del liceo.

S' i' fosse foco, arderei 'l mondo;
s' i' fosse vento, lo tempesterei;
s' i' fosse acqua, i' l'annegherei,
s' i' fosse Dio, mandereil' en profondo;
s' i' fosse papa, sare' allor giocondo,
ché tutt' i cristiani imbrigherei;
s' i' fosse 'mperator, sa' che farei?
a tutti mozzerei lo capo a tondo.
S' i' fosse morte, andarei da mio padre;
s' i' fosse vita, fuggirei da lui:
similmente farìa da mi' madre.
S' i' fosse Cecco, com' i' sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre,
e vecchie e laide lasserei altrui.
(Cecco Angiolieri 13°-14° secolo)


La leggo, sorrido e penso che la caldaia è importante, ma le parole anche.

domenica 12 dicembre 2010

Di cosa parliamo quando parliamo d'amore


"E' molto bello quello che ha fatto per me ma vede io sono una donna come tante. Sudo, tossisco, ho la carie." (Film Blu)

Leggo sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica la risposta delirante di Natalia Aspesi a un'altrettanto delirante lettera di tale Marianna.
La rubrica si intitola Questioni di cuore e Marianna è una moglie pluritradita ma ancora al fianco del marito che ipotizza una bizzarra soluzione al problema tradimento. Una sorta di appello alla solidarietà femminile.
La Aspesi condivide appieno: "Sono certa che il giorno in cui le donne smetteranno di contendersi un uomo, l'uomo perderà la voglia di tradire. Credo che (non solo) gli uomini si eccitino a sentirsi contesi, si sentano importanti, messi in palio dal desiderio delle donne."
Evviva, trovata la soluzione.

Peccato che il ragionamento abbia solo un paio di falle:
1. l'idea (purtroppo spesso praticata) che gli uomini siano dei bambinoni, che stia a noi donne "governarli", indirizzarli, orientarli...un po' come si fa con i figli. (E poi ci diciamo stanche!) Idea che, neanche a dirlo, fa rabbrividire. Ben diverso sarebbe parlare di rivoluzione umana, di riscoperta della lealtà, della sincerità. Ma dovrebbe essere la persona in questione a scegliere e non chi lo ha sposato o chi lo intrattiene piacevolmente fuori di casa. In tal caso dovrebbe poi parlarsi di essere umano e non uomo. E così arriviamo al punto 2.
2. La soluzione della signora Marianna non tiene conto del fatto che non sono solo gli uomini a tradire. Mi spiace per tutti quelli che lo apprendessero solo ora, ma anche le donne tradiscono mariti e partner. Almeno la Aspesi questo lo fa intuire grazie a quella parentesi, ma lo ignora nel ragionamento. A questo punto la soluzione finale quale sarebbe? Due fronti di solidarietà maschile e femminile che non permettano a individui dell'altro sesso di parlare, telefonare, fare un viaggio di lavoro o prendere un caffè con il rispettivo marito/moglie?


Mi sembra quindi che dobbiamo fare un passo indietro e parlare della coppia.
Di quella cosa strana a cui si anela quando non la si ha (più le donne degli uomini, in verità) e che quando finalmente ci riguarda, ci fa esplorare l'intorno e sospirare. Della serie "ah se solo potessi".
E' la sensucht romantica, niente di nuovo, il desiderio di desiderare, il desiderio che per alimentarsi richiede di non essere mai soddisfatto.
E' quello che Woody Allen descrive meravigliosamente con una scena del suo ultimo film: Roy, sposato con Sally, passa ore e ore di inattività a rimirare dalla finestra la bella dirimpettaia.
Quando finalmente va a vivere dalla concupita vicina, gli capita di guardare sua moglie che si spoglia in quella che era la loro casa e, a questa distanza e a questo punto delle cose, Sally sembra desiderabile come non mai.
Tanto che Roy deve abbassare la tendina per non tentennare.

Io intanto aspetto con ansia American Life, l'ultimo film di Sam Mendes del quale il regista dice: "I protagonisti del mio film non sono due: sono un'unità. E il film non parla della sfida dello stare insieme. E' piuttosto la storia di una coppia che ha già deciso di affrontare unita le sfide del mondo."
Sceneggiatura di Dave Eggers e della sua compagna, Vendela Vida.
Grazie, abbiamo bisogno di aria nuova.

martedì 7 dicembre 2010

Luci e ombre

Qualche giorno fa ero con il puffo in uno di quei negozi tutti pieni di decorazioni natalizie. Quei trionfi del marketing decembrino tutti luci e colori. Sono belli, bellissimi.
Abbiamo comprato una pallina per l'albero. Il nostro albero è già pieno ma da quando c'è il puffo ogni Natale ne compriamo una nuova. Quest'anno l'ha scelta lui, è un Babbo Natale di lana con il cappello celeste attaccato a una pallina di metallo sempre celeste che suona come una campanella.
Il nostro albero è tutto rosso e oro ma si sa che i figli adempiono raramente le aspettative genitoriali.
Si comincia con le palline per l'albero, si continua con gli amici e poi la fidanzata...

Mentre ci avviavamo alle casse lui felice per il Babbo Natale celeste, io per averlo distolto da tutto il restante acquistabile, abbiamo incontrato il signore che abita due piani sopra di noi.
Da qualche tempo non è più cordiale come quando siamo arrivati qui. Nel mio egocentrismo, pensavo che fosse leghista e avesse scoperto le mie origini romane o peggio quelle siciliane della mia dolce metà. Oppure che i risvegli notturni e urlanti del puffo lo avessero disturbato oltre il limite.

Invece mentre le lucine e i colori caldi degli addobbi ci circondavano, mi è arrivata una doccia fredda.
"Che bello" mi ha detto riferendosi a D. "Noi abbiamo perso un nipote di sei anni per la leucemia, in primavera. E non viviamo più."
E io ho saputo dire solo "Mi dispiace, non lo sapevo".

Quando la sera mi ha beccato in cucina che piangevo, A. ha capito che siamo molto più indietro di quanto pensavamo.
Il lavoro di costruirsi una barriera protettiva rispetto al mondo, parliamo di questo.
A volte sembra andare meglio, invece poi scopriamo che è come tutti gli altri cantieri italiani. Siamo molto indietro.
Certo che lo so che muoiono tanti bambini, che ci sono le malattie, la fame e tutto il resto.
Ma gli occhi di un uomo con cui hai scambiato solo buongiorno e buonasera che si riempiono di lacrime davanti a te come puoi dimenticarli più?

Abbiamo collocato il Babbo Natale celeste su un ramo alto perché dice A. che, per un paradosso visivo, l'elemento dissonante va esposto perché si noti meno.
E penso di fare una crostata e regalarla al signore di due piani sopra. Non che una crostata possa fare nulla, ma è l'occasione per dirgli che se qualche volta vuole parlare o venire a giocare con D., noi siamo qui. E per dirgli quanto io abbia apprezzato il suo coraggio di mostrare il dolore che ha dentro.
Tra nastri e decori rischiavo di non vederlo.

venerdì 3 dicembre 2010

Grazie di tutto


L'ho visto al Festival di Venezia qualche anno fa.
Non sul parterre, girava tra la gente, stringeva mani.
Un'amica ha lavorato sul set de "Le rose del deserto" e raccontava che fosse l'unico non sconfitto dalle condizioni atmosferiche.
In un'intervista quando gli chiesero di inventare un possibile epitaffio per sé, rispose: "Non cedette mai a nessuna attrice".
E diceva che Oliveira era il suo cruccio perché, nonostante l'età, continuava a fare un film l'anno: "Se non muore, mi toccherà essere sempre secondo".
Grazie di tutto.

giovedì 2 dicembre 2010

Il gigante e il bambino

Penso che Philip Roth sia un grande. Il più grande? Non so, di certo ne ha pochi davanti. Quando leggi anche solo un paio di righe è tutto così perfetto che la scrittura sembra preesistere al suo autore, quelle parole così combinate sembrano essere naturali come una cascata, una roccia.
Che poi è quella naturalezza derivante dal lavoro di un gigante, quella semplicità frutto della complessità.
Ecco alcune righe tra le mie preferite di Roth:
"Il suo viso lungo e stretto era incorniciato da capelli fini, dritti e neri che le arrivavano alle spalle e un po' più giù, con un taglio che sembrava studiato apposta per nascondere qualche difetto sfigurante, ma certo non di natura fisica".

Oltre a questa battuta di dialogo, in cui peraltro mi guardo allo specchio:
"Io non sono un tattico. Sono un entusiasta."

Siamo ne "Il fantasma esce di scena", la battuta è pronunciata da Kliman, non da Zuckerman che è l'alter ego di Roth.
Infatti Roth non è un entusiasta. E' un uomo dalle grandi ossessioni: il sesso, la vecchiaia, la malattia.
E proprio di quest'ultima volevo parlare. Ultimamente ho preso di nuovo in mano i suoi romanzi, in particolare "Everyman" e, fatto salvo quanto dicevo per lo stile e l'economia di parole e l'efficacia che queste raggiungono, non ho condiviso più tanto la sua visione delle cose in cui prima, a dire il vero, sguazzavo.
Il malato che invidia la sicurezza del sano, la malattia come maledizione, la disperazione che sembra essere inevitabile man mano che si va avanti.

Da quando pratico e studio il buddismo e coltivo l'idea che il karma di ognuno è allo stesso tempo il percorso da compiere per completare la conoscenza dell'umano e la sfida da affrontare per trasformare i propri limiti, vivo meglio.
Guardo con più lucidità e comprensione anche alla storia della mia famiglia, noi che con il karma della salute non ci siamo andati proprio leggeri.
Guardo con ammirazione il puffo che nella sua istintività è molto vicino alla saggezza: quando è malato sta nella malattia e quando sta bene non spende neanche un minuto a lamentarsi di quel che è stato o a invidiare i bambini che sono andati al parco a fare i pupazzi di neve o a preoccuparsi di quello che sarà.
Certo non scrive come Roth, anzi non scrive proprio.
Ma in compenso parla ininterrottamente. Quasi sempre di cose belle.

venerdì 26 novembre 2010

La piccola G. e la Gelmini

G. e i suoi compagni hanno occupato la scuola.
Lo so perché G., figlia maggiore di una nostra amica, ha chiamato A. chiedendogli di andare a parlare loro di cinema.
A. è andato e mi ha raccontato che hanno iniziato con il cinema e sono finiti a parlare della scuola, di loro, di come lottare per quello che si vuole.

Penso a G. così minuta e così determinata che dorme in quella scuola. Chissà com'è la scuola di notte...
-Ma c'è qualche bidello lì con loro? C'è qualcuno che sorveglia l'ingresso, che nessuno gli faccia del male?
- Sì, c'è un bidello che vive proprio lì nella scuola.
(a casa nostra diciamo ancora "bidelli" ma li stimiamo al pari degli insegnanti. I giri di parole li lasciamo a quelli così ossessionati dal trovare la formula linguistica giusta che si dimenticano di salutarli).

I racconti di A. su questi ragazzi mi fanno tornare in mente cose a cui non pensavo da tempo: i viaggi in treno con A. la mia amica del cuore per raggiungere piazza Esedra punto di partenza di tutte le manifestazioni, Cofferati che sembrava dovesse essere il nuovo Berlinguer,  il corso di cinema durante l'autogestione in cui scoprii "Arancia meccanica", "The doors" e altri film disapprovati dagli adulti, i 24 chilometri della marcia della pace Perugia-Assisi, lo striscione che indossavamo io e le mie amiche (ci mettemmo tutta una notte a colorarlo) e che recitava PACE: UNICA ARMA INTELLIGENTE, lo sguardo di mia mamma che ogni volta che uscivo di casa mi guardava come se non dovessi tornare più ma mi mandava sempre, il suono dei bonghi, i piedi che alla fine facevano un male..

Stamattina, compro il giornale e leggo:
Gli studenti fermano la riforma. Slitta l'approvazione della legge Gelmini.

mercoledì 24 novembre 2010

I doni della morte e i doni di Natale


Harry Potter e i doni della morte è stato un po' il mio film di Natale.
Lungi da me cinepanettoni e facsimili (posso vantarmi di non averne mai visto uno) , i miei film di Natale sono stati fino a una certa età i film Disney.
Io ero la piccola della famiglia e il film era un regalo ulteriore per me e mia sorella.
Ricordo benissimo Il libro della giungla, che deve essere stata la mia prima volta al cinema.
Poi un Natale, sono stata io ad accompagnare il  mio cuginetto A. Era Il re Leone ed ero diventata grande.
Il film di Natale è quel film che quando lo guardo dimentico di aver dedicato gli ultimi otto anni a studiare cinema e narrazione.
Mi siedo e sprofondo in quell'universo fantastico e torno bambina e potrei non tornare più.
A me Harry Potter piace, è sempre piaciuto. Penso che alla Rowling si debba riconoscere il merito di aver affascinato metà pianeta con il suo personalissimo immaginario. Per me la Rowling è una grandissima soggettista, come scrittrice non potrei giudicarla perché confesso di non aver letto la saga. L'ho vista tutta al cinema. Dai commenti che ho sentito, forsei dovrei leggere quest'ultimo. Ma anni fa, iniziai il primo volume, prestatomi da U. che allora era un bimbo divoratore di libri, e non mi piacque. Trovai lo stile molto piatto.
Potrei rispolverare il tutto tra un po' perché a D. piacerebbe. D. non si addormenta senza storia, non più.
Comunque, tornando a Harry, ho trascorso due ore e mezzo meravigliose .
Poi, uscita dal cinema, tra il freddo e le luci di corso Belgio, sono tornata grande.
E con l'età adulta, sono tornati gli studi, le nozioni, l'esperienza ed è vero che molte cose non stanno su.
E' del tutto casuale che la spada sia proprio in fondo a quel lago, è assurdo che catturino Harry Potter e nonostante la cicatrice sulla fronte e gli amici a cui si accompagna (i soliti due) dubitino così a lungo che sia lui tanto da farlo scappare, è inverosimile che Albus Silente possedesse uno dei doni della morte, la bacchetta più potente al mondo e sia morto in quello scontro...
ma è il mio film di Natale e non ci voglio pensare troppo su.

PS. anche mia mamma ha i suoi film di Natale. Sono quelli ambientati nelle grandi metropoli USA con il barbone che alla fine si capisce, o meglio si sa, che è Babbo Natale. Mentre li guarda la vedi di nuovo bambina come nelle foto, poi torna alla realtà (o forse no) e va a comprare un nuovo addobbo per l'albero.

sabato 20 novembre 2010

Umarells rule

Il mio amico G. (che ha rinnovato il sito, vi invito a visitarlo http://www.gughifassino.it/) mi parlava degli umarells.

Gli umarells, il termine è bolognese, sono quei vecchini che non hanno granché da fare, escono di casa perché presumibilmente le mogli li esortano a farlo, e così li ritrovi un po' dappertutto. Seduti ai tavolini del bar, in fila alla posta, in piccoli capannelli al parco. Molto spesso, in piedi ai bordi di un cantiere a commentare i lavori in corso.
Se non parlano di come andrebbe ricostruito il manto stradale, parlano della pensione (beati loro che ne vedono una), degli allenatori di calcio, dei bei tempi andati.
Sono tanti, caratterizzano così bene il nostro paese che ci vorrebbero delle piccole riproduzioni sui banchetti dei souvenir, tra il Colosseo e il Ponte dei Sospiri.
Sono tanti ma ne ricordo due in particolare.

Un umarell seduto su una panchina, quest'estate all'Isola d'Elba. Conversava con una signora di qualche anno più giovane, una nonna in vacanza a seguito della famiglia. A un tratto il signore si è alzato ha preso la busta del pane e ha detto:
"Mi ha fatto molto piacere conoscerla, parlerei con lei tutta la giornata ma mia moglie mi aspetta per il pranzo alle 12.30. Non voglio farla preoccupare".
Ha sollevato di poco il cappello e si è incamminato sorridente sul grande viale alberato verso casa.
Galante e fedele, ne ho intravisto la vita.

Un altro umarell invece risale a qualche anno fa. Sedeva dietro di me all'Olimpico di Torino. Toro-Catania. Noi, o meglio A. e L., i due siciliani a cui mi accompagno, tifano Catania. Dopo non molto si capisce che non siamo torinisti anche perché L., attrice focosa, non contiene le reazioni al goal avversario.
Nessuno degli umarells che ci circondano ci fa notare che non siamo proprio graditi, che dovremmo sedere in un'altra zona dell'anello.
Quello dietro di me, quando l'arbitro cade in evidente errore, si alza e grida: "Somaro!".
Io che di Olimpico ne conosco un altro, rimango allibita dall'elegante imprecazione.
Non c'è niente da fare, gli umarells hanno stile.

Clicca qui per vedere
Umarells on film

venerdì 19 novembre 2010

Carpe film

Leggo su una rivista che il giovane attore Nicolas Vaporidis è ossessionato dall'idea della morte, in particolare dal pensiero del suo funerale.
Ma io mi chiedo: un individuo così preoccupato della sua finitezza umana non potrebbe cercare di fare film un po' migliori finché ha tempo?

mercoledì 17 novembre 2010

L'essenza delle cose

A volte D., tornando dall'asilo, racconta qualcosa.
I racconti si dividono in tre tipi: bambino/a ha fatto qualcosa a lui; lui ha fatto qualcosa a bambino/a; bambino/a ha fatto qualcosa degno di nota tout court.
Per curiosità, per interessarmi alla sua vita sociale chiedo:"Chi? Gianluca? O Lorenzo?" oppure "Michelle? Cecilia?".
La sua risposta è "Quella con i capelli fatti così" oppure "Quello che fa così".
Segue un mimo dei capelli o della gestualità identificativa del bambino che a me risulta incomprensibile, ma il puffo, soddisfatto, guarda fuori dal finestrino. Anch'io sorrido: non aggiungerà altro, l'essenziale è stato detto.

A lui, agli allievi di sceneggiatura pronti a raccontarmi alla prima lezione il loro immaginario, a tutti quelli che aderiscono alla mia campagna "distruggiamo idealmente ogni archivio in cui siamo un numero o un nome o un insieme di caratteri alfanumerici" dedico questo passo del Piccolo Principe:


Se vi ho raccontato tanti particolari sull'asteroide B612 e se vi ho rivelato il suo numero, è proprio per i grandi che amano le cifre. Quando voi gli parlate di un amico mai si interessano alle cose essenziali. Non domandano mai: "Qual è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?"
Ma vi domandano "Che età ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?".
Allora soltanto credono di conoscerlo. Se voi dite ai grandi:
"Ho visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre e dei colombi sul tetto" loro non arrivano a immaginarsela. Bisogna dire:
"Ho visto una casa di centomila lire" e allora esclamano: "Com'è bella".
Così se voi gli dite: "La prova che il piccolo principe è esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora: Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste." Be' loro alzeranno le spalle, e vi tratteranno come un bambino. Ma se voi invece invece gli dite: "Il pianeta da dove veniva è l'asteroide B 612" allora ne sono subito convinti e vi lasciano in pace con le domande. Sono fatti così. Non c'è da prendersela. I bambini devono essere indulgenti con i grandi.
(A. de Saint-Exupéry, "Il Piccolo Principe")

lunedì 15 novembre 2010

Amici di famiglia

Più leggo i giornali, più sono raggiunta (a volte mio malgrado) dalle notizie che l'autoradio diffonde in macchina e più mi sembra di essere precipitata in un film di Paolo Sorrentino.
La cosa pazzesca è che l'abilità di Sorrentino si pensa sia l'andare a scovare certe realtà provinciali, un po' periferiche che sa poi raccontare bene.
Che sia un grande regista nulla da dire, che quelle realtà siano così nascoste...ecco su questo mi viene il dubbio.
Gran parte del nostro paese, gran parte della sua classe politica e dirigente, ha molto di certi personaggi laidi e squallidi che si è felici e rassicurati di lasciare sullo schermo a film finito.
Il triste è trovarseli tutt'intorno.

mercoledì 10 novembre 2010

Tutti zitti, tutti buoni

Sono stata una purista della visione cinematografica.

Infastidita dagli sgranocchiatori di pop corn (a cui dovrebbe essere consentito di sgranocchiare solo nelle scene d’azione quando il volume è talmente alto che non disturbano gli altri).

Infastidita da quelli che non spengono il cellulare e questo gli squilla. Mi ricordano che c’è un mondo fuori, che sono seduta in una sala e non in piedi su un cornicione con il cattivo che mi sta dando la caccia, patisco il jetlag di uscire istantaneamente dal grande schermo a causa di una suoneria idiota.

(A. lo è più di me, ha tentennato sulla pena capitale pensando che ci sono persone che rispondono al cellulare ma alla fine la sua umanità ha prevalso.)

Infastidita dai commentatori. Quelli che fanno la radiocronaca di quanto sta accadendo, quelli che non capiscono quanto sta accadendo e chiedono all’amico/a, fidanzato/a di illuminarli, quelli che sentono l’esigenza insopprimibile di esprimere la loro disapprovazione o il loro entusiasmo (questi ultimi un po’ li perdòno perché la passione è così rara di questi tempi).

Poi la vita (leggi la maternità) mi ha portato a essere un tantino più tollerante.

Non spengo più il cellulare perché se c’è un’emergenza e i nonni o la babysitter devono avvisarmi?
(Però non mi ha mai squillato, attivo la vibrazione e me lo tengo sulle ginocchia. Non sgarro mai, so che c’è A. seduto nel posto accanto e che rischio il divorzio).

E riguardo ai commentatori, a volte uno dei più vivaci è seduto sulle mie gambe. Soprattutto durante i primi film che ha visto, il puffo era meglio di uno speaker e inoltre dichiarava a tutti le sue grandi aspettative sul cattivo.

Comunque, un cartone è un cartone. Il film è un’altra roba. Il dialogo è sacro.


Ma leggendo, in una raccolta di articoli di Gianni Amelio sul cinema, un pezzo dedicato a Jacques Tati, trovo una piccola lezione.


Quando uscì Playtime, il suo film più costoso, Tati si disse contento se il pubblico commentava a voce alta. Chi se ne importa, del dialogo, meglio che qualcosa li sorprenda a tal punto da strappargli un commento, un’osservazione, un’esclamazione.


È vero che non siamo dalle parti di alcuni dialoghi memorabili (Tarantino su tutti), ma Tati mi ricorda una verità: se un vero cinefilo potesse salvare una sola cosa, questa sarebbe l’immagine.

domenica 7 novembre 2010

Se telefonando

Telefonata surreale al Pronto Soccorso Pediatrico.
Sono le 6 di domenica mattina.
La notte non è piccola, è inesistente. Non abbiamo dormito neanche un'ora.

-Pronto, chiamo per un'informazione. Mio figlio di neanche tre anni è da ieri sera alle 23 che tossisce ininterrottamente, ha preso lo sciroppo K alle 23 e di nuovo alle 4..
- Signora, sono costretta a interromperla.
- Come scusi?
- La legge ci vieta di dare terapie per telefono.
- Certo, ma il mio bambino ha già la terapia data dal pediatra. Volevo solo chiederle quanto tempo deve passare tra lo sciroppo e le gocce perché è domenica mattina e il pediatra non lo trovo.
- Mi dispiace.
- Non può dirmi solo se posso già dare le gocce?
(a questo punto la mia voce trema non so se per debolezza fisica o tentativo di impietosire)
Non ho chiuso occhio neanche un minuto, ci aiuterebbe molto..
- Signora, mi mette in difficoltà. E' vietato dalla legge. E questa telefonata è registrata.
- Capisco, grazie.

Se un giorno le intercettazioni mi inchiodassero, sappiate che non c'entrano escort, gigolò o tentativi di estorsione. Volevo solo dormire.

martedì 2 novembre 2010

Come muore una parte di noi

In ogni essere umano c'è tutto. L'abisso e la vetta.
Non ho mai creduto al cinismo di chi dice "L'uomo è fondamentalmente cattivo". E' un giudizio parziale di chi piega il pensiero sotto il peso della delusione (e chi non ne ha avute?).
L'uomo e la donna sono in potenza tutto.
La meraviglia dell'avventura umana è l'enorme libertà di scelta che si rinnova di secondo in secondo.
Tutti gli esseri umani possiedono anche l'istinto alla violenza, all'egoismo, alla collera, al voyeurismo patologico, al gossip consolatorio.
La prova è che quando incontriamo in autostrada un incidente, il traffico rallenta perché tutti lanciano uno sguardo.
Non credo si speri di vedere un corpo massacrato, sanguinante, carne sofferente.
La mia idea è che si guarda perché la mente umana subisce il fascino di quell'insondabile parte dell'esistenza che si ammanta di casualità.
Come gli eventi, la dinamica di un veicolo o due, si incidono nelle carrozzerie, cosa le macchine riescono a diventare quando deragliano dalla traiettoria che si immaginava per loro.
Si guarda anche per vedere a cosa si è scampati, vero. La ridotta probabilità statistica che un incidente appena successo si ripeta ci fa viaggiare un po' più tranquilli. Ci muoviamo ancora in una sfera di sentimenti bassa senz'altro, ma accettabile.

Molto diverso secondo me è il voyeurismo ingiustificabile che si scatena dopo una tragedia come quella di Avetrana.
Altro che sesso e sparatorie, la censura dovrebbe abbattersi su trasmissioni che macinano delitti e sofferenze come carburante per procedere a gonfie vele.
Bruno Vespa e il suo ghigno con cui vorrebbe farci credere di partecipare alle notizie vanno banditi per sempre dalla televisione.
Perché una sparatoria cinematografica può essere catartica e liberatoria di certi istinti di violenza ineliminabili dall'animo umano.
Una scena di sesso può essere poco indicata a certe età ma di certo non sarà mai dannifica come alcune cose che non puoi spiegare ai bambini e non puoi più far notare agli adulti perché completamente assuefatti.
Quella mancanza di empatia, di compassione nel senso etimologico e più alto del termine, quella freddezza che ti fa concepire una trasmissione o un tour nei luoghi del delitto. Ci si interessa tanto di una morte quando una parte di noi è già morta. Quella che dovrebbe provare rispetto per la vittima e indignazione per tutto il resto.

Io la faccia di Vespa e degli altri è tanto che non la vedo.
A casa nostra la tv funziona solo come monitor per il lettore dvd.
Vediamo film o cartoni animati (e A. qualche volta i goal, la domenica).
Ma leggo i giornali e non riesco a dormire pensando a tutti i televisori ancora funzionanti in Italia.

lunedì 1 novembre 2010

Attenti al ragno


"Darren ha sedici anni
e li avrà per sempre."

Il film aveva tutti i numeri per funzionare.
Io sono amante di circo e prodigi, A. è un appassionato di vampiri (fin da tempi non sospetti, molto prima della saga Twilight per capirci).
E' la notte di Halloween.
Il puffo dorme, nel buio sghignazza una zucca a luce intermittente che gli hanno regalato i nonni.
Però la magia non si compie.
"Cirque du Freak: the Vampire's assistant" racconta la storia di Darren, sedicenne dalla vita tranquilla, con un'insana passione per i ragni e un migliore amico un po' fuori di testa. Una notte i due vanno a vedere l'one-night show del Cirque du Freak, in tournée da cinquecento anni.
E da quella sera qualcosa cambierà.
L'atmosfera è suggestiva, soprattutto nella sequenze dell'ingresso al circo.
E quando i due vampiri arrivano in prossimità del campo invernale, fatto di tende, carrozzoni e lucine, quella vista mi ha emozionato (ma qui appunto forse sono io oppure sono io e qualche ricordo di Big Fish tornato a galla). 
Però si rimane sempre a un passo dalla narrazione, il ritmo è a tratti troppo accelerato, i combattimenti ti lasciano a guardare.
Si sorride con un grande John C. Reilly e Kan Watanabe nei panni di un freak è visivamente inquietante, più degli altri.
Stavolta più che mai, peccato.

sabato 30 ottobre 2010

Il ragazzo delle montagne nevose e altri coraggiosi

Ogni creazione comporta uno sforzo. Lo sforzo nasce dall'opporsi alla resistenza al cambiamento.
Le paure intime e gli ostacoli intorno.
L'ordine esistente resiste il più possibile. Il nuovo deve farsi strada con forza.
Lo sanno gli scrittori alle prese con il blocco, le mamme in sala parto, i bambini che imparano a camminare, i rivoluzionari, i protagonisti dei film ben scritti, i ricercatori, tutti quelli che tentano di dare un nuovo corso.

Nella Sutra del Nirvana si narra di un ragazzo che per poter ascoltare la seconda parte di un verso mai udito prima, accettò di buttarsi nelle fauci della creatura orribile che l'avrebbe pronunciato.
Prima però volle inciderlo sulle rocce e sui tronchi perché potessero leggerlo anche altri.
Quindi, si tolse di dosso la pelle di cervo che lo copriva e saltò.
Ma il demone si trasformò nel dio Shakra, un essere risplendente di luce che lo accolse tra le sue braccia e gli disse di aver voluto mettere alla prova la sua fede e il suo spirito di ricerca.

E' cercando il nuovo che il mondo gira.

martedì 26 ottobre 2010

Quell'uomo lassù




acrobata (s.m.) è chi cammina tutto in punta (di piedi): (tale, almeno,
è per l'etimo): poi procede, però naturalmente, tutto in punta di dita, anche,
di mani (e in punta di forchetta): e sopra la sua testa: (e sopra i chiodi,
fachireggiando e funamboleggiando): (e sopra i fili tesi tra due case, per le strade
e le piazze: dentro un trapezio, in un circo, in un cerchio, sopra un cielo):
volteggia su due canne, flessibilmente, infilzate in due bicchieri, in due scarpe,
in due guanti: (dentro il fumo, nell'aria): pneumatico e somatico, dentro il vuoto
pneumatico: (dentro pneumatici plastici, dentro botti e bottiglie): e salta mortalmente:
e mortalmente (e moralmente) ruota:
                                                      (così mi ruoto e salto, io nel tuo cuore);


Poesia di Sanguineti, illustrazione di Benila (http://www.benila.com/)

sabato 23 ottobre 2010

I quattro elementi e i due fratelli Shyamalan



Ci sono artisti che assomigliano a certi amici.
Quelli di cui non ti puoi fidare sempre, quelli che però quando sono in vena ti regalano qualcosa che gli altri no, non riescono, non in quel modo.
Shimalayan è uno di questi.
Può offrirti film come "Il sesto senso" che fa scuola, che ti trovi a citare spesso parlando di sceneggiature esatte come orologi.
Oppure atmosfere come "The village". 
Non esita a parlare di lealtà, responsabilità come missione. I suoi film richiamano una morale dell'essere umano, intesa in senso lato, trans-culturale ed in questo è un unicum perché l'impegno al cinema si traduce più frequentemente in impegno civile, sociale, politico.

Ma per avere tutto questo, devi mettere in conto che a volte andrai al cinema e avresti preferito non andare.
Ti sembrerà la brutta copia di se stesso. Ti troverai a sospettare di un fratello gemello un po' scemo che si spaccia per lui sul set.
Non ci sarà quella profondità che ti aspettavi, c'è qualcosa di sfocato, quasi dozzinale.
E' il caso di "Signs", "Lady in the water", "E venne il giorno".

"L'ultimo dominatore dell'aria", il cui soggetto -molto suggestivo- è tratto da un manga, non arriva a questo.
Si ferma a metà: i dialoghi a volte sono imbarazzanti (anche per la recitazione?), le azioni dei personaggi incerte (il fratello della dominatrice dell'acqua e la principessa, durante la battaglia finale, vanno di continuo avanti e indietro dal luogo sacro. Per smaltire l'ansia?), i personaggi non hanno la tridimensionalità di un film e non hanno l'epicità degli eroi dei fumetti.
Le immagini però, finalmente con un digitale usato al meglio delle sue possibilità, sono affascinanti.
E il tema di affrontare il nemico senza usare la violenza, solo mostrando le potenzialità e la forza della tua anima, da approfondire.
Provaci ancora, Shy.

giovedì 21 ottobre 2010

Ci sono giorni

Ci sono giorni così. Giorni che chiudi il dito in uno sportello, ti chiudi fuori di casa (con le chiavi dentro), chiudi i ricordi in un cassetto e la chiave la regali a uno che passa sotto casa facendo footing.
Ci sono giorni che chiudi gli occhi, chiudi le imposte perché vuoi la penombra, chiudi un libro perché non riesci a concentrarti e chiudi il portatile perché che vuoi scrivere in certi giorni?
Chiudi la zip del piumino perché fa 6 gradi, chiudi la serranda del garage. Chiudi il cellulare perché ha funzionato anche troppo.
Poi arriva la signora delle pulizie e spalanca porte e finestre.
Meno male.

venerdì 15 ottobre 2010

Un'altra vita


C'è molta polvere nell'aria. E tutto intorno è bianco e nero, ma il bianco non è proprio bianco. Avorio, ecco. E il nero non è proprio nero, vira un po' sul seppia. Gli occhi di tutti sono marcati col nero che stavolta invece è nero nero che li rende più sorridenti e più tristi.
Ecco, mi trovate lì.
Tempo fa per tre pomeriggi mi sono immersa in un regalo ricevuto lo scorso Natale.
"Alla ricerca di Charlie Chaplin" di Kevin Brownlow, un cofanetto libro più dvd.
Con materiale inedito, primi lavori, ombre e luci di un essere straordinario.
E, finita la visione, sono rimasta lì, non volevo tornare, non riuscivo a tornare.
La mia amica F. a cui esponevo il mio caso preoccupante mi consigliava di guardare tutta la fantascienza che avevo in casa. Oppure tutto Tarantino che pure mi piace tanto.
Una specie di scossone per aprire una porta temporale in cui infilarmi per tornare al presente.
Il consiglio era buono, ma non l'ho seguito. Ne sono uscita poco a poco, con il tempo. Ho preferito venire via come su un treno da cui puoi guardare la stazione che si fa man mano più piccola.
Però che magia laggiù.

PS. la mia "amica di blog" Toupie sembra essere affetta dalla stessa sindrome. Credo però che lei sia da qualche parte negli anni '60...

martedì 12 ottobre 2010

Sotto un grande albero



Ieri sono andata a trovare S.

Al fioraio ho detto: “Vado a trovare una signora che non sta bene. Vorrei una pianta colorata, allegra.”
Avrei dovuto dire: “Non sto tanto bene, vado a trovare S. Porto una pianta, quale?”

Perché è vero che S. sta facendo la chemioterapia ed è vero che non può muovere bene le gambe.
Ma tu che puoi correre a piedi o in macchina, che puoi fare la spesa, sport, andare al parco, andare alla posta o al lavoro, a quelle cose spesso rimani inchiodato. Lei è libera. Va lontano.

La sua terapia è una cosa di cui parliamo in mezzo alle altre, non è la prima e non è l’ultima. Parliamo di indiani d’america, di sua figlia quand’era piccola come D., di caffè, di equilibrio, di attacchi di panico, di tamburi, di determinazione, di autostima, di Gesù Cristo, di perfezionismo, di oscurità fondamentale, dei lavori che non mi hanno pagato, dei mormoni, del film di A., dei nonni, del nostro buddismo, della mia fede ancora debole (e io che pensavo di stare andando alla grande!).

La pianta (alla fine ho comprato una kalanchoa dai fiori rosso corallo) le piace e mi è andata bene: “mi regalano sempre piante che non mi piacciono”.

S. è ruvida e morbida insieme.
La seconda volta che l’ho incontrata, mi ha detto “I romani non li sopporto tanto”.
Però, dopo un meeting buddista in cui mi ha visto piangere, mi ha scritto un sms in tarda serata: “Sei molto sensibile. Rimani così. La sensibilità se usata con il daimoku tocca il cuore delle persone. Mi ha fatto piacere vederti".

Accanto a S. provi una sensazione strana. L'ho raccontato ad A. Anche lui sente lo stesso. Senti la vita scorrere.  E la cosa non ti crea angoscia, non ti senti in ritardo su tutto. Ti senti come se fossi seduto in un posto ombreggiato, a guardare l'acqua.

sabato 9 ottobre 2010

L'arte dell'innesto


C'è una sensazione indescrivibile provata quando si sogna e si sogna di cadere da una scala o da un cornicione. Quella perdita di equilibrio che ti fa risvegliare e ti salva da quella caduta così reale, più reale di cento volte che sei caduto davvero.

Nel film è chiamata "il calcio". Ti riporta alla realtà dal sogno in cui sei immerso. Ma chi lo dice che quello che hai intorno stavolta è reale?

In compagnia di Dom Cobb (Leonardo di Caprio), esperto in furti dell'inconscio, può accadere che tu stia bevendo un caffè nel dehors del solito bar di un quartiere che conosci così bene e a un tratto ti accorgi che sei con lui ma nel tuo sogno, cioè nel regno del tuo inconscio e nel momento in cui te ne accorgi tutto inizia a esplodere e crollare perché era la tua sospensione di incredulità (proprio come al cinema!) che rendeva il tutto reale e funzionante.

Christopher Nolan è un genio.
Grande conoscitore del funzionamento della mente e dei meccanismi cinematografici. Coniugando le due cose, ottiene un film che è un capolavoro strabiliante. Strabiliante perché non finisce quando si accendono le luci in sala ed esci dal cinema e ti infili di nuovo in macchina e nel traffico e nel letto.
Il film continua e l'innesto di cui si parla nel film è avvenuto nella tua mente.
Tutto questo l'ho capito ben tre giorni dopo in una discussione telefonica a quattro.
L'happy ending che mi ha fatto piangere di tensione finalmente sciolta, di felicità, di catarsi necessaria per non morire lì sulla poltrona del cinema, non è reale.

Sono passati due anni da quando Dom Cobb ha visto per l'ultima volta i figli e quando li riabbraccia indossano gli stessi vestitini. Tutto questo non è possibile. Tutto questo lo dice G. al telefono e mi si gela il sangue.
Perché è vero che quella dannata trottola dell'ultima inquadratura non ha smesso di girare. Io l'ho vista rallentare, lo giuro ma forse è solo quello che ho voluto vedere.
Del resto Di Caprio, nel mettere a punto il piano con la sua squadra, lo dichiara: perché l'innesto funzioni bisogna puntare sulle emozioni positive che sono più potenti di quelle negative.
E con lui, Nolan ce lo ha detto. Il trucco era lì sotto gli occhi, ma come un abile prestigiatore ("The prestige" è uno dei film precedenti del regista non a caso) ha maneggiato rapidamente le carte.
E quando Arianne, architetto dell'inconscio, si allena a costruire mondi chiude due porte che sono enormi specchi in cui le figure di lei e Dom Cobb si ripetono all'infinito.
A dire che i livelli del sogno potrebbero essere infiniti. Il film forse ne era uno. La nostra vita potrebbe esserne un ulteriore.
Dov'è quindi il "principio" del titolo? E dove la fine?


PS. io non riesco a scrollarmi di dosso l'emozione degli occhi di Di Caprio quando davanti al Saito invecchiato ricorda improvvisamente il motivo per cui è lì.
M. pensa spesso alla girandola che l'ha fatta piangere.
V. ha ricominciato a sognare.
A. non è ancora sicuro di essere sveglio.
Se non è un capolavoro questo...

martedì 5 ottobre 2010

Tempi duri

Tempi duri sotto il tavolo.
Secondo round di parainfluenza in famiglia, pensavamo di averla fatta fuori e, come nei migliori film d'azione, è risorta più potente di prima.
Nel puffo è degenerata in principio di bronchite.

La scuola materna che tanto entusiasmo aveva generato, ora genera altrettanto nervosismo a casa, bada bene, perché a scuola andiamo sempre abbastanza sereni.

Il film langue, cioè è lì. Che piace. Che non riesce a raccogliere tutti i fondi necessari. Che sembra partire. Che si ferma. Che ci innervosisce (anche lui).

Le notti sono lunghe e il sonno corto. Qualche incubo, due o tre risvegli, un viaggio nel lettone.

Io e A. ci rubiamo uno sguardo tra l'aerosol, i parenti, i collegi docenti, le riunioni di condominio, le bollette da pagare, il puffo che ronfa beato sui nostri cuscini, la raccolta differenziata, le strigliate della caposcala perché non abbastanza differenziata.
Ci guardiamo e sappiamo che verrà di nuovo il tempo per noi. Che il tempo per noi non è passato mai. Che tutto questo caos animato e inanimato che è la nostra casa siamo noi.

Questo post è dedicato ad A. perché quando in casa ci sarà silenzio e potrei sussurrargli queste righe, starò già dormendo.

venerdì 1 ottobre 2010

Caduti nella rete

Siamo connessi, cibernetici, tecnologici, dotati di blackberry, ipad, iphone, email, account...
non sono ironica, sto descrivendo la realtà di cui (per mia fortuna) so anche cogliere gli aspetti positivi.
nonostante a volte riecheggi nelle mie orecchie la voce di Guzzanti che riflettendo sulle magnifiche possibilità di essere connessi con tutto il mondo gridava "Abboriggeno ma io e te che ce dobbiamo di'?" non sottovaluto le potenzialità della rete.
prima su tutte quella di collaborare e accedere a un'informazione libera in senso lato, senza bavaglio, spesso senza costi.
il che vivendo nel paese in cui viviamo non è male.
la rete presenta dei rischi e questo lo sappiamo ma non è che il mondo reale ne sia privo, anzi fin troppo banale capire che se sono nella rete è perché esistono nella realtà.
la rete, per sua caratteristica intrinseca di non avere limiti, esalta ogni dimensione, fa da cassa di risonanza.
a volte, ahimé, anche della stupidità.
a volte, tutti presi dall'essere ipermoderni, non ci accorgiamo di quanto siamo iper-stupidi.
due esempi.
sulla confezione della carta igienica ho trovato un numero verde e un sito da consultare per suggerimenti. non voglio neanche immaginarli.
sulla bottiglietta di una nota marca di acqua, leggo la solita filastrocca sull'importanza di essere idratati e un importante suggerimento: scopri quanti bicchieri bisogna bere al giorno su www.bevi8bicchieri ecc.
quanti mai saranno questi bicchieri?!
poveri noi.

martedì 28 settembre 2010

Tutti a scuola

Ieri mattina ho accompagnato D. alla scuola materna, seconda settimana di inserimento.

Abbiamo portato i biscotti e non abbiamo portato l’asciugamanino. La settimana dei biscotti è finita e l’asciugamanino serviva.
Non indossavamo il grembiule e in classe ci siamo accorti che tutti i bambini lo avevano.
Sono l’unica mamma sempre in jeans (in effetti la t-shirt nera con su scritto “Clockwork orange”, se alle sette di mattina fossi più in me, me la sarei potuta risparmiare) e A. l’unico papà con capigliatura non proprio ordinaria.
Dedico questo post a quanti non sono stati piegati da numerosi cicli scolastici (compreso il master).

A quanti non hanno mai capito perché la scuola debba iniziare alle otto quando studi scientifici (e anni di guida mattutina) dimostrano che il cervello entra a pieno regime almeno un paio di ore dopo.

A quanti portano sempre qualcosa che non serviva (siano i biscotti, la riga da un metro e mezzo per educazione tecnica o IL vocabolario di latino) e non portano qualcosa che serviva (il grembiule, la calcolatrice o il diario).

A quanti si sono presentati almeno una volta a un esame senza aver studiato tutto (confesso pubblicamente di non aver neanche sfogliato l’ultimo capitolo intitolato “Le regioni” del Temistocle Martines per l’esame di Istituzioni di Diritto Pubblico).

A quanti per paura di un esame hanno studiato almeno una volta perfino le note (io due: Sociolinguistica e Semiotica).

A quanti dopo aver affrontato cicli scolastici di ogni ordine e grado non hanno ancora capito come vestirsi per star bene alle otto di mattina (-5 C) e all’una quando si esce da scuola (24 C circa).

A quanti sono definiti "secchioni" ma stanno solo cercando di distruggere il sistema da dentro.

A quanti, all’atto dell’immatricolazione, sembra di essere precipitati in un racconto di Kafka e disperano di uscirne vivi o immatricolati.

A quanti, quando accompagnano la prole, si ritrovano a chiedersi se devono sedersi al banco o tornare in macchina.


PS. il bello della materna è che le maestre ti vogliono bene e D. ha potuto distribuire ugualmente i suoi biscotti.

venerdì 24 settembre 2010

Da qui


Volevo il momento, non un'esistenza quieta.
(Lev Tolstoj, La felicità familiare)
Da una telefonata che mi viene in mente di fare in tarda serata, apprendo che il nostro amico C. parte di nuovo.
E quando parte C. non sono mai vacanze, formule all inclusive, cene di benvenuto con il comandante.
Quasi sempre si tratta di paesi in guerra o con elezioni turbolente, paesi in cui in presenza della polizia non ti senti proprio al sicuro.

C. lo vediamo e lo sentiamo poco, ma è una persona a cui teniamo molto.
Incredibile come le amicizie strette in certi posti (e la Scuola Holden è uno di questi) non abbiano bisogno di essere alimentate continuamente. Resistono. Tu vivi, fai tutt'altro e loro sono lì.
Strano posto la Scuola Holden, può capitare anche di innamorarsi e fare un bimbo. Inutile dire che gli holdenini -figli di due holdeniani- hanno la stessa probabilità di salute mentale che ha Frances Bean, figlia di Kurt Cobain e Courtney Love.
E C. è in un certo senso il primo amico di D. perché è quello che durante le cene in un dicembre di qualche anno fa spediva in balcone tutti i fumatori (se stesso compreso) perché a tavola c'eravamo io e il mio pancione.

Lo sgomento che ci prende quando C. annuncia una partenza è ovviamente la paura inconfessata di non vederlo più (in Iran ci è mancato veramente poco).
Pensiamo spesso alla mamma di C. che rimane a Napoli a visitare pazienti, fare la spesa, cenare con il resto della famiglia e troppe poche notizie per dormire tranquilla.
Io e A. temiamo che nostro figlio elegga C. a suo mentore e decida di fare la stessa cosa: il reporter senza gli alberghi pagati e il culo parato, diciamo così.

Però ieri mi è capitata tra le mani una vecchia t-shirt di A. 
E chi legge da un po' questo blog sa come, a casa nostra, le t-shirt siano foriere involontarie di messaggi.
Gliel'hanno regalata ex alunni di sceneggiatura e recita così:

Fai apparire ciò che senza di te non potrebbe essere visto.
(R. Bresson)

La leggo, poi la leggo ancora una volta a bassa voce. Solo allora capisco.
E da qui, dalla mia vita così diversa dalla sua, riesco ad augurare sinceramente a C. un buon viaggio e un buon lavoro.
Forse un giorno, se servirà, riuscirò ad augurarlo anche a nostro figlio.

mercoledì 22 settembre 2010

Made in Japan



Il mio amico F., grande appassionato di Giappone, a cui va il merito di avermi introdotto nell'universo di Murakami Haruki, mi ha prestato un fumetto di Katsuhiro Otomo: "Domu" (trad. con "Sogni di bambini")


Dopo averlo finito, leggo nella quarta di copertina che Otomo l'ha realizzato nel 1980 (molto prima di tanto cinema e narrativa in cui si parla di telecinesi e poteri paranormali) e rimango allibita.

Domu ha - meritatamente - ottenuto lo Science Fiction Grand Prix Award, premio mai assegnato prima ad un fumetto.
E' un fumetto per adulti che racconta la disperazione, la violenza e l'anomia con una forza che stenti a credere possibile per le immagini statiche di una pagina stampata.

Mi è capitato recentemente di confrontarmi con amici sulla cosiddetta "questione giapponese": i cartoni made in Japan che guardavamo da bambini erano irresistibili sì, ma anche innegabilmente violenti e non particolarmente educativi.
Quello che abbiamo ignorato per anni è che in Giappone il linguaggio "fumetto" o "cartone animato" può avere target diversi, dall'infanzia all'età adulta passando per le fasce intermedie.
L'ignoranza della dirigenza televisiva italiana che si occupava di programmazione e palinsesti negli anni '80 ha fatto sì che, mentre i genitori ci spedivano alle nove a letto per evitare visioni inadatte, noi avevamo già fatto il pieno di violenza e suggestioni sessuali nel pomeriggio.
Non è da trascurare anche la diversa idea di infanzia che le culture elaborano. Leggevo in "Anime violente":
"A proposito degli scenari postnucleari e della presenza costante dell'elemento distruzione di massa nelle opere nipponiche, va ricordato che il Giappone è l'unico paese ad aver conosciuto l'orrore e le conseguenze di un attacco nucleare sulle proprie città. (...) Non stupisce, quindi, che ai bambini venga insegnato, piuttosto velocemente, che il mondo esterno non è sempre bello, dolce e spensierato."
(da "Con gli occhi a mandorla. Sguardi sul Giappone dei cartoon e dei fumetti", ed. Tunué)

L' interessante adesso è recuperare tutto quello che abbiamo perso o che abbiamo visto senza avere gli strumenti.
E' riflettere su chi erano veramente i violenti.

martedì 21 settembre 2010

Pubblicità progresso


Si aprirà ufficialmente a breve la campagna "Una doccia per ogni mamma".
Il comitato organizzatore provvederà a istituire dei gazebo nelle piazze delle principali città italiane in cui le mamme potranno procedere alle ordinarie operazioni di pulizia (che non si negano neanche ai carcerati e a cui troppo spesso le genitrici devono rinunciare) mentre i loro pargoli saranno intrattenuti da educatori specializzati per l'infanzia.

Le mamme che soffrono di carenza di tempo in bagno si riconoscono da uno o più dei seguenti segnali: capelli a cespuglio (non c'è tempo per il phon o i capelli non vengono lavati affatto), una gamba depilata l'altra no, smalto scrostato sulle unghie delle mani (i piedi vengono coperti per dignità), un orecchio più a sventola: è quello che viene infilato tra le ante del box doccia per captare i segnali acustici provenienti dagli altri ambienti della casa.

A seguire le campagne: "Un libro per ogni mamma" o "Un film per ogni mamma" (una a scelta, non esageriamo) e "Una telefonata a un'amica per ogni mamma".
Bocciata invece l'iniziativa "Un tour di shopping per ogni mamma" perché che indossi a fare il maglione figo nuovo che c'hai lo smalto scrostato?

venerdì 17 settembre 2010

Pugni chiusi e altre tristezze

Qualche sera fa i miei uomini (marito e figlio) sono tornati a casa con un regalino per me: "Orchestraevoce", raccolta di canzoni d'amore d'epoca reinterpretate da Francesco Renga.
Era da un po' che volevo acquistarlo, è stata una sorpresa gradita.

Ci sono uomini la cui voce evoca una sensualità che i muscoli di Beckham se la sognano. Renga è uno di questi, fantastico.

Ascolto il cd mattina e sera, in ogni momento utile.
Mentre cucino la pasta al forno, stiro, passo il mocio, canto a squarciagola
(I vicini non si allarmano, non più, dopo le prove di mio marito con gli attori del suo film horror..)

"Pugni chiusi
non ho più speranze
per me c'è la notte più neeeera"

Canta oggi e canta domani...mi torna in mente Krishnananda e il suo libro "A tu per tu con la paura".

La nostra cultura non favorisce il lavoro interiore. Sarebbe veramente difficile immaginare di andarsene in giro per un supermercato mentre gli altoparlanti diffondono canzoni che esaltano la gioia della ricerca interiore, la ricchezza di sentire il dolore e approfondire la meditazione. E' molto più probabile, invece, ascoltare qualcosa del tipo "Il mio amore mi ha lasciato e sono tanto triste. Ma perché la vita mi tratta sempre così male?"
E giù, a riempire il carrello. Vero.

Poi ho pensato alla mia amica C., gran bella ragazza, intelligente, spiritosa, vulcano di idee, scrittrice folle e a tutte le sue storie d'amore più folli di lei, compresa l'ultima finita per cause sconosciute a tutti (compresi i due interessati). A quegli amori che non hanno ostacoli (Giulietta e Romeo sì che avrebbero da dire), ma che non riescono a concretizzarsi, ci amiamo ma non possiamo stare insieme ma non possiamo stare senza...

"Tu bella e triste non sarai
non si può morire dentro
e restando morireiiiiiiiiiii"

Mi pare così d'aver trovato la radice degli struggimenti amorosi dei miei coetanei e dei più giovani: le canzoni d'amore dei nostri genitori.

mercoledì 15 settembre 2010

Storia di un profeta

 

"Il vero significato di profezia non è sapere che su quella casa cadrà una bomba nel 1982 ma sentire qualcosa che sentirà qualcuno tra cento anni."


Quando vai a vedere un film tratto da o ispirato a uno dei tuoi libri preferiti, rischi grosso.

Rischi di rimanere deluso, di affermare presuntuosamente: “solo io ho capito davvero l’autore (la sua vita, l’opera, ecc.)” o più banalmente: “meglio il libro”.
Per questo sono andata a vedere Urlo di fretta perché in ritardo come sempre ma con grande cautela interiore, diciamo così.
Urlo è un film che non mi ha fatto dormire la notte.

È un film che mette in scena il poema, lo visualizza in animazioni (e qui la purista che è in me ha tremato), lo riporta all’esistenza da cui si è originata. Ecco, è un film che opera una restituzione dell’arte alla vita e lo fa con un forte significato politico valido nel 1957 (anno del processo per oscenità) e valido oggi.

La storia di Allen Ginsberg è, ancora prima che il racconto di un poeta di talento, il racconto di un uomo coraggioso che ha affrontato a testa alta i suoi demoni.

“Mentre scrivevo, immaginavo che Urlo non sarebbe mai stato pubblicato, che mio padre non l’avrebbe mai letto così mi sentivo libero di scrivere.”

E, picchiando sui tasti di una macchina da scrivere, Ginsberg trova il coraggio di abbracciare l’umano, abbracciando se stesso. Finisce in manicomio dove, per uscire, promette ai medici di diventare eterosessuale e poi invece dichiara al mondo la sua diversità. Soffre la sua sofferenza e quella di sua madre Naomi e quella di Carl Solomon perché i reietti abbiano possibilità di redenzione.

Con la loro vita di eccessi e la loro esigenza di onestà, gli scrittori della beat generation portano nell’America piccolo-borghese e benpensante i semi di una rottura che apre la strada a tutti i diversi (in tutti i modi in cui si può essere diversi, insofferenti agli schemi e alle convenzioni). Con il loro errare verso Oriente, rivoluzionano l’ordine spirituale dichiarando la santità e la dignità di ogni forma di vita.

Applausi a James Franco che non interpreta Allen Gingsberg, ma diventa Ginsberg con il suo modo di parlare placido e musicale nelle parole ancora prima che nei versi, l’unico modo possibile per chi sapeva urlare quando ce n’era bisogno e non aveva bisogno di farlo sempre.


martedì 14 settembre 2010

In qualche posto, sulla terra...


Amo i film di Sofia Coppola. Amo e ho visto ripetutamente la "trilogia della solitudine femminile" (Il giardino delle vergini suicide, Lost in traslation, Marie Antoinette) con una predilezione per Lost in traslation.
La Coppola ha una mano unica, un tratto delicato, una poetica delle piccole cose, affreschi che procedono per accumulo e alla fine restituiscono una vita. Emozionano.

"Somewhere" a mio avviso disattende le aspettative.
Nel film ci sono momenti così, delicati, pregni di senso ma nel complesso la rarefazione del narrare viene spinta troppo in là e lo schermo si riempie di scene noiose e lunghe come Cleo che pattina o Johnny che fuma e beve.
Diverse le scene in cui con efficacia si descrive la noia (bella la lunga attesa con la maschera sul viso, magistrale la scena iniziale in cui si dice tutto del personaggio: un uomo che gira a vuoto in un ambiente che dovrebbe essere adrenalinico).
Il tema del padre redento dalla vicinanza della figlia così come il ritratto di uno star system allo sbaraglio e volgare non sono sufficientemente originali. La regista non ci racconta nulla che non sappiamo, al contrario di quanto fa ad esempio in Lost in traslation in cui dallo schermo arriva al pubblico il vissuto di chi quei posti li ha visti e respirati davvero. O ancora in Marie Antoinette in cui, forte della sua grazia femminile, la Coppola suggerisce una possibile storia intima e parallela ai grandi eventi.

Suggestive le musiche e il titolo a ricordare che, anche se difficile da trovarsi, pure ci deve essere un posto dove sentirsi finalmente a casa, come diceva una vecchia canzone.

"Da qualche parte al di là dell'arcobaleno
c'é un paese di cui ho sentito parlare
una volta in una ninna nanna
da qualche parte al di là dell'arcobaleno
i cieli sono blu e i sogni che osi sognare
diventano realtà sul serio"
(Somewhere over the rainbow)

venerdì 10 settembre 2010

I terribili due

Ci siamo. Siamo in piena fase del "no".
Quando si parla dei terribili due (anni), lo si fa con una ragione che tutti i genitori si augurano di non scoprire.
L'anno che va dai due ai tre è una specie di anteprima per mamma e papà di quello che sarà l'adolescenza.
Di positivo c'è che non hanno ancora il motorino, non hanno ancora le chiavi di casa e non sono innamorati. E che hai ancora il tempo per pensare lungamente se farne un altro o meno.

La nostra casa risuona di "no" dalla mattina alla sera. E se la causa del no è l'ordine di ingurgitare il minestrone, te ne fai una ragione.
Se la causa è ogni cosa, dall'uscire al mangiare le patate al forno, capisci che hai poco margine d'azione. Puoi sederti, respirare e aspettare che passi.

L'altroieri pomeriggio, reduce da un rendez-vous con il dentista per una cura più lunga e costosa di quanto mi aspettassi e auspicassi, un po' stanca e un po' impensierita, propongo di uscire per andare al parco giochi.
(la strategia è quella di stare all'aperto il più possibile prima che torni l'era glaciale).
Dopo una sfilza di
"andiamo al parco" "no"
"metti le scarpe" "no"
"lascia il camion" "no"
"prendi la felpa" "no"
"andiamo al parco" "no"
e così via in un loop che avrebbe potuto durare all'infinito
sbotto:
"NON ROMPERE LE BALLE!!! Andiamo"

e dall'altro ieri ogni tanto mio figlio viene da me dicendo "Mamma, voglio rompere le balle!" che, pur ignorando cosa sia, gli sembra una cosa desiderabilissima per il solo fatto che gliel'ho vietata io.
quello che non sa è che lo sta già facendo benissimo.

giovedì 9 settembre 2010

Quando i soldi non possono tutto...



Recuperato un altro film perso al cinema.
"Drag me to hell" di Sam Raimi. Incredibile come ad aprire la mente, entrino cose interessanti. Ho fatto pace con l'horror e si è dischiuso un mondo.

Quest'estate la mia amica A., ricercatrice in Economia, ha gentilmente tentato di spiegarmi con un linguaggio che potessi capire anch'io (mi manca proprio un'area del cervello, quella dedicata alla voce "burocrazia e questioni economiche") cosa è successo nell'economia mondiale in questi anni.
Mi ha parlato delle banche statunitensi e del "trucchetto" (lei non ha usato questa parola ma io lo farò) con cui, sventolando sotto il naso dei proprietari di case una liquidità in prestito pari al valore dell'immobile, sono riuscite a sottrarre le case stesse.
E poi il concedere mutui a soggetti non bancabili, ossia soggetti che mai avrebbero potuto pagarlo interamente, e tutte quelle manovre che ci portano alla situazione attuale.

Eccoci tornati a "Drag me to hell".
Ecco l'interpretazione visionaria -e tradotta nel genere-  di un grande artista.
Prendete lo strapotere del denaro e di strutture che difficilmente hanno una faccia e un nome (poveri funzionari allo sportello!), l'impotenza che ti coglie a non farcela a stare al passo, la reazione  degli oppressi che spesso non conosce misura, prendete la giusta dose di ambizione che serve per farcela, per presentarsi in certi ambienti a testa alta, per riscattarsi da un passato con qualche stento...
prendete gli scrupoli che prima o poi tornano, le paure, la suggestione, l'oscurità dentro e fuori, tutti gli ingredienti dell'umano...
ecco un gran film.

PS. ogni cosa ha il suo piccolo prezzo. Ora temo le mosche più dei ragni e non esco più in balcone di notte...

lunedì 6 settembre 2010

E noi eleggiamo Cota


Ieri a casa di amici in campagna ho conosciuto due bambini speciali.
Che C., il primo dei due, non fosse italiano l'ho capito - ancor prima che dalla pronuncia dura di alcune consonanti - dal fatto che non ha strappato via i suoi giocattoli dalle mani di mio figlio.
Era felice, è andato a prenderne altri per farlo divertire.
E quando gli ho suggerito che la mazza da baseball che diceva di cercare era molto probabilmente quella che mio figlio brandiva in aria contro invisibili nemici, ha fatto spallucce.
Io e C. abbiamo giocato a calcio in cortile mentre mi confidava: "io non mollo mai".
C. ha sei anni, è rumeno e non è il primo che conosco.
Non mollano mai, verissimo. Sono tenaci, volenterosi. Sorridono spesso come se il sorriso fosse la cosa che più gli è mancata.

Il secondo bimbo conosciuto ieri, G. J., di anni ne ha tre.
I suoi genitori sono di religione sikh e, per tradizione, G.J. porta i capelli lunghi raccolti in una treccia fissata sulla sommità della testa a formare un piccolo chignon.
Mi è stato raccontato dai nostri amici che questa pettinatura per noi inusuale ha turbato a tal punto le mamme dei suoi compagni dell'asilo nido che hanno montato su un casino con le maestre sostenendo che l'olio aromatico usato per l'acconciatura causava allergie ai figli.
G. J. è stato messo in disparte dagli amichetti i quali, senza l'intervento dei genitori, avrebbero convissuto in pace con un bimbo che ama il pallone e Spiderman come loro.
G.J. ha sviluppato una forte personalità e una grande empatia. Ha stretto la mano a mio marito per presentarsi e ha asciugato le lacrime a mio figlio che piangeva per una disputa di gioco. La sua pediatra dice che di bambini così speciali ne avrà incontrati due in tutta la carriera.

Oggi poi ho visto "Welcome" e vorrei scrivere qualcosa ma non riesco. Vedetelo e fatelo vedere.
Grazie.

venerdì 3 settembre 2010

Vita da grandi

Sembra proprio che la pratica buddista + la terapia alternativa di V. (il mio amico di cui scrivevo qualche post fa) portino a risultati eccellenti nel contrastare la natura malinconica di cui alcuni (tra cui io) sono affetti.

Ad esempio ieri ero in ascensore con la mia amica P. e il suo bimbo di sette anni L. che le ha chiesto "Mamma quando è di nuovo giovedì?".

E mi sono ricordata improvvisamente con grande tenerezza - ma senza alcuno strascico di dolore proustiano - di quando:
ignori i giorni della settimana;
puoi disinteressarti dell'orologio;
a pranzo dai nonni guardi "La signora in giallo";
gli adulti comprano giornali verbosi e noiosi ma per te le figurine;
la maestra ti vuole bene come nessun capo mai;
i giorni di pioggia ti fanno felice perché metti gli stivali di gomma per saltare nelle pozzanghere;
non hai perso nessun amico o amante e nessun amico o amante ti ha ancora perso;
Babbo Natale è una specie di supereroe che in una notte percorre tutto il pianeta dotato di poteri telepatici per regalare a ogni bambino esattamente ciò che vuole.

Ma sono felice dell'età che ho perché:
ogni settimana sono sicura ci sia il sabato che il buon Leopardi aveva già individuato come giorno più bello;
posso guardare i film di Tarantino, Lynch e Cronemberg;
quando piove posso cantare a squarciagola "Kiss the rain" disinteressandomi del giudizio degli altri;
ho mantenuto gli amici che contavano;
ho scelto la religione che sento giusta per me;
il supereroe con poteri telepatici è mio marito e il vantaggio è averlo vicino tutti i giorni e non solo la notte di Natale.

lunedì 30 agosto 2010

Perché scriviamo


"Scrivo perché ho paura che si perda il ricordo di me. O forse solo per essere protetto da una storia (...)"
(F. De André)

Si scrive per i motivi più vari. Ad esempio, per evitare che certe cose ti rimangano dentro a imputridire. Se poi trovi qualcuno che quelle cose le riconosce come sue tanto da dedicare a un'idea -che a quel punto diventa di tutti- le sue energie e il suo talento, l'esperienza si fa intima, come essersi conosciuti da un'altra parte, un'altra volta.
A me è successo. Ecco alcune delle nostre creature collettive.

Clicca qui per vedere "Zeno"
Zeno

clicca qui per vedere un estratto di "May"
May

Grazie a: Andrea (regia), Daniele (fotografia), Fede (montaggio), Airam (musiche), Vanessa (trucco&parrucco), gli attori e tutti i collaboratori.
E, poiché il set non è sempre rose e sorrisi, a chi ha saputo andare oltre...

sabato 28 agosto 2010

Nulla di nuovo sul fronte occidentale

Noi occidentali siamo troppo intelligenti. Il progresso è dalla nostra parte, ha dimostrato la nostra superiorità. Siamo primi in tutto, anche nel consumo di psicofarmaci.

Noi occidentali, cresciuti a latte e logica (A=A e A non B), viviamo per avere ragione.
La logica di divisione, dell’io invece di te anzi dell’io prima di te.
La sicurezza ostentata (io sono meglio) per coprire una grande insicurezza (io sono qualcosa?).
L’incapacità di uno sguardo olistico.
Quando frequentavo corsi di filosofia all’università di Torino, successe che uno studente alzò la mano e al professore che spiegava Kant offrì la sua constatazione:
“Quanto stiamo dicendo è valido per la nostra idea di mondo perché il pensiero orientale ad esempio percorre altri sentieri…”
Al che il docente rispose:
“Ma io ritengo il pensiero filosofico occidentale superiore” e continuò con Kant.

Quello che mi chiedo è: e se a un tratto fossimo colti tutti da sacro terrore per aver perso molte occasioni? Se non uno o due individui con il cervello troppo in moto ma tutta la società tutta si paralizzasse al pensiero che il nostro pensiero ci abbia fregato?
Mi sono capitate (non per caso, io non credo al caso) tra le mani queste righe di Jakob Steiner:

“Noi concepiamo sempre l’uno partendo dall’altro. Nella nostra concezione non siamo altro che dialettici. Ma nella dialettica – anche in quella di Hegel – ogni antitesi distrugge almeno in parte la tesi perché svela la sua inadeguatezza. Nel pensiero strutturato dialetticamente c’è poi il pericolo che ogni cosa venga messa in dubbio fin dall’inizio, perché si pensa, in modo puramente schematico, che un’altra cosa metterà a nudo la sua relatività. (…) Per vedere chiaramente l’uno, dipendiamo sempre dal fatto di poterlo distinguere dall’altro.”

E mi sono ricordata del Saggio sull’onestà intellettuale contenuto in City (libro a cui devo l’aver voluto frequentare la Scuola Holden) e che inizia così:

“1. Gli uomini hanno idee.
2.Gli uomini esprimono idee.
3. Gli uomini esprimono idee che non sono loro.
4. Le idee, una volta espresse e dunque sottoposte alla pressione di un pubblico, diventano oggetti artificiali privi di un reale rapporto con la loro origine. Gli uomini le affilano con tale ingegno da renderle micidiali. Col tempo scoprono di poterle usare come armi. Non ci pensano su un attimo. E sparano.”

sabato 21 agosto 2010

C come Cosa chiami Casa?

"Viaggiai dappertutto, mai verso casa"
(Chaim Potok)

Pranzo di agosto in Sicilia, aria di montagna e vista sul mare. E' la casa per le vacanze di persone a cui voglio davvero bene, una delle tante case a cui penso spesso.
E con queste persone si parla dei primi film non proprio da bambini visti quando eravamo bambini.
Mio marito ci batte tutti con un King kong visto a tre anni e mezzo, secondo classificato nostro figlio con Alice in wonderland a due anni e tre mesi (cosa che i nonni ancora non mi perdonano).
Io, d'accordo avevo sei anni, ma non posso dimenticare "Navigator" e come abbia animato i miei incubi per alcuni anni. Replicando una scena del film, sognavo spesso di tornare correndo verso casa mia, suonare il campanello e non trovare nessuno di familiare ad aprirmi.
Quella scena si è stampata talmente tanto nel mio inconscio che quando, ormai 25enne e residente a Torino, torno senza telefonate ad annunciarmi per fare una sorpresa ai miei, sulla salita di casa mi assale un dubbio:
"E se non trovo nessuno? E se mi aprono altre persone?".

Casa. é una. In provincia di Roma. Dove sono nata, cresciuta. Dove ho studiato, aperto i regali di Natale, dato accidentalmente fuoco ai miei capelli, scambiato confessioni notturne con mia sorella, pianto, portato a cena la mia migliore amica, il mio primo ragazzo.
Case. Sono quattro, quelle che ho cambiato da quando sono a Torino. Dove ho cucinato per la prima volta, mi sono armata contro la domenica mattina, smaltito la mononucleosi, scritto tutta la notte, baciato quello che è diventato mio marito, recitato in cortometraggi, passato le prime notti in bianco da mamma, sono rimasta chiusa fuori senza chiavi.
Case. Sono tante, quelle abitate da persone che mi fanno sentire a casa, in cui ho dormito o solo cenato, quelle che immagino vissute, in disordine, animate anche se non da me.
Troppe per non sentire sempre una sottile nostalgia.
E poi c'è D. che ci fa sentire tutti a casa e che si sente a casa solo negli ostelli o nelle cuccette sui treni di notte.