mercoledì 28 aprile 2010

Lui, il potere

Altra cosa è il pensiero maschile di cui però anche noi donne siamo portatrici, magari inconsapevoli.

Il pensiero maschile ha prodotto la religione repressiva e infarcita di senso di colpa, il patriarcato che ha massacrato generazioni intere, la filosofia che ha escluso per lungo tempo l’apporto delle donne e perciò si è condannata all’ incompletezza, la medicina che ha sottratto alle levatrici la partoriente e l’ha sdraiata sul lettino più comodo per il dottore, la politica che credo non abbia bisogno di commenti.

Il pensiero maschile insegue, capisce e ama solo il potere. Come scrive Gabriella Mereu, il potere teme l’eros che è unione, incontro con il diverso, sete soddisfatta di assoluto, libertà, espressione.
Il potere divide, assoggetta, fa ammalare.

“L’eros dà coerenza invece del conflitto, unifica i linguaggi e gli intenti, ed unisce i concetti permettendo la sintesi, stabilisce la semplicità dove c’era la complicazione, in quanto permettendo di fonderci intellettualmente con l’altro, abbiamo dell’altro una conoscenza chiara e diretta.” (La malattia: la trappola dell’eros, G.Mereu).

Gli schemi con cui siamo abituati a ragionare e a parlare (noi/loro, uomini/donne, noto/ignoto, comunitari/extracomunitari, fedeli/eretici) non sono altro che uno strumento del potere che osserva il precetto “divide et impera”. E che gode di ottima salute.

lunedì 26 aprile 2010

Noi le donne

Mi fanno sorridere alcuni discorsi a cui, per appartenenza di genere, mi capita spesso di assistere.

La maggior parte di essi inizia con “Noi…" e prosegue con "...invece loro”.
Noi sta per “le donne” e loro ovviamente per “gli uomini”. Al "noi le donne" segue un lungo elenco di competenze pragmatico-filosofico-relazionali che possiamo riassumere con: sappiamo innamorarci e amare, cucinare dolci, crescere figli, ascoltare i suoceri, lavorare fuori e dentro casa, chiedere aiuto e darlo, leggere poesie e romanzi, commuoverci al cinema, abbracciare un’amica. Al “loro, gli uomini” segue un “invece no”.

Ebbene voglio dire la mia in merito (non riesco a farlo sempre perché vedo il fuoco sacro ardere in alcuni occhi e mi spavento).
Io non credo che “Noi le donne” sia una buona categoria di pensiero. Perché “Noi le donne” sono, anzi siamo: Angela Merkel, Patrizia D’Addario, la Regina di Cuori e Alice, Mara Carfagna, Susan Sontag, le veline, Rita Levi Montalcini, Rosa Luxemburg, la Gelmini, Jo ed Amy March, Bettie Boop e Barbottina. Un insieme enorme, magmatico che è difficile maneggiare come un tutt’uno in un ragionamento che pretenda di dimostrarci migliori.

E loro, gli uomini, sono un universo che è difficile afferrare con un giudizio che li comprenda tutti. Un giudizio quasi sempre negativo.

Nella mia piccola esperienza, ad esempio, gli uomini sono capaci di gesti molto delicati, di un ascolto partecipe, di un altro punto di vista. Mi capita di collaborare con uomini che, conoscendo la situazione familiare comprendente un puffo di due anni e quattro mesi che non va ancora all’asilo, mi propongono con un sorriso di venire a lavorare a casa mia. Arrivano in automobile, bus, con l'influenza, senza. Con un sorriso. E mi è capitato di scrivere per una produttrice che mi ha urlato al telefono che la mia vita privata sono fatti miei. Certo, ma se non stai ai patti e anticipi una consegna, il bambino dove lo lascio per i prossimi due giorni? Nello spazio delle palle colorate all’Ikea?

Sarà che nella vita può capitarti di incontrare persone meravigliose e tutto il resto passa in secondo piano. Sarà che invece puoi incontrare delle persone eccezionalmente stronze e, anche in tal caso, tutto il resto passa in secondo piano. Sarà per questo che non appena sento un incipit di discorso “Noi le donne” ho un incipit di orticaria.

venerdì 23 aprile 2010

I bombaroli

Da un certo punto di vista è bello vedere che i libri possono ancora essere pericolosi.
Ci sono alcuni titoli che non trovi in bella mostra vicino alla cassa, che non trovi negli scaffali e, chiedendo al commesso, neanche in angoli nascosti. Se si è fortunati, sono in magazzino. Allora bisogna prenotarli, telefonare, tornare. Si tratta di tomi che è meglio togliere di mezzo perché lo sguardo non ci capiti su per caso e qualcuno lo trovi anche se non lo cercava.

Ci sono libri che ho inseguito ed esattamente sono:

Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini, Einaudi
Walden di Henry Thoreau, BUR
Nato di donna di Adrienne Rich, Garzanti

La mia teoria del complotto si è notevolmente rafforzata quando di tali volumi sono entrata in possesso. Essi si sono fatalmente rivelati pericolosi. Per ragioni di brevità, riporterò soltanto alcuni passi:

“è stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo) concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’edonè. Era in cui i giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino all’infelicità (che non è una colpa minore).” (Lettere luterane, p. 170/171, scritto nel 1975!!)

“tuttavia, se ha migliorato le nostre case, la civiltà non ha parimenti migliorato gli uomini che devono abitarle. Essa ha creato palazzi, ma non le fu così facile creare nobili e re.” (Walden, p.93)

“l’altruismo materno è l’unica cosa universalmente approvata e incoraggiata nella donna. Il figlio può venire ritualmente consegnato al mondo adulto, le sue successive difficoltà possono essere attribuite all’eccessivo amore e protezione della madre, ma lei viene ben poco aiutata nei suoi sforzi per arrivare alla separazione”. (Nato di donna, p.308)

A chi fosse intenzionato a dedicarsi alla stessa ricerca, auguro di riuscire e suggerisco di muoversi in tempi brevi prima che qualcuno si accorga di quei magazzini impolverati.

mercoledì 21 aprile 2010

Una camelia fa primavera

In questi giorni è successa una cosa straordinaria.
Faccio un passo indietro, una sorta di antefatto.
A dicembre la temperatura qui (a pochi chilometri da Torino, non in Alaska) è arrivata a -14.
Si sono guastati nell'ordine: automobile piccola (saltato il termostato, fusa la testata del motore), automobile grande (saltato solo il termostato, si è evitato il peggio), tubi della caldaia (congelati, intervenuto l'idraulico con fiamma ossidrica. giuro).
e in questi giorni è successo questo: che le camelie (la cosa più bella del palazzo in cui viviamo, ne vado fiera come fossero figlie mie) sono fiorite. splendide, lussuose come sempre. come la scorsa primavera. e quella prima.
temevo di non vederle più. e invece, senza nessun intervento tecnico, eccole


lunedì 19 aprile 2010

Ah le mamme

Airam è diventata mamma.
Airam è una grande amica, anche se lontana. L’ho vista per pochi giorni da quando è nato il suo cucciolo. Ora più che altro la immagino che lo abbraccia, che lo guarda e che guarda alla sua nuova vita.

E ripenso a quando ero io mamma da pochi giorni.
E mi ricordo di quel tornare al mondo te stessa e moltiplicata. La felicità indescrivibile. L’interrogativo insolubile se mi riconoscessi più in me stessa o più nella creatura che avevo creato. Quell’estrema vulnerabilità che tutti gli estranei credono appartenere solo al neonato e invece è anche della mamma.
E poi quel negare di essere cambiata. Continuavo a sostenere di non essere diversa. Chissà perché doveva sembrarmi così importante. Forse perché le mamme nell’immaginario collettivo diventano creature sdolcinate, prive di istinti e attrattive sessuali, dipingono le camerette di colori pastello e non vogliono più leggere  i quotidiani.
Poi per fortuna è intervenuto mio cognato, con la sua discrezione ancora più preziosa in questi momenti. E mi ha detto “Certo che sei cambiata. Come potresti non esserlo? Ora sei mamma, prima non lo eri.”
(Guai a parlar male degli ingegneri, ci tengono attaccati alla terra con i ponti e le parole.)

È vero, è la cosa più vera che abbia mai sentito. Come potrei essere la stessa? Prima disponevo del mio tempo liberamente, poi ogni tre ore al massimo dovevo essere a casa per allattare. Prima potevo accettare qualunque incarico lavorativo, farmi gli antiemicranici quasi in endovena, bere alcol, caffè, deprimermi pensando di non aver combinato nulla di buono nella mia vita. Poi mi sono ritrovata a rifiutare le trasferte, convivere col dolore, niente alcol, poco caffè e non posso più sprofondare nei baratri wertheriani del malessere. Ci sono due occhietti vispi che mi tengono d’occhio.

Questa è una canzone che abbiamo scritto io e Airam tempo fa (mio il testo, sua la voce e la musica). Era il nostro omaggio a De André, Fossati e a una vacanza in Provenza. Quando non c’erano ancora biberon, pappe e pannolini nei bagagli. E neanche l’idea di quanto fosse bello aiutare un essere umano a crescere.


A chiamarti la notte

sabato 17 aprile 2010

Il sintomo

"Facebook is not the disease, it’s just one of the symptoms."(Charlie Pratt)

Perché una malattia in giro c’è, questo è chiaro.
Ho da tempo cancellato il mio account su facebook in una lotta personalissima e donchisciottesca contro la superficialità.
Avevo aderito per curiosità.
Ho ritrovato compagni di scuola delle elementari “toh, guarda S. si è sposata”, “eh ma O. è sempre uguale!”, “D. ha un figlio” (questa notizia appresa con meno entusiasmo perché D. non era proprio un compagno di scuola).
Avevo spesso il polso della situazione esistenziale delle mie più care amiche (quasi tutte lontane) A G. fa male la schiena, E. è depressa perché il capo è uno stronzo, P. si prepara a uscire (beata lei che non va di fretta visto che riesce a postare nel frattempo), ecc. ecc.

Poi è subentrata la noia e quindi l’irritazione.
L’esistenza di un cretino (che già appariva tale quando ci incontravamo perché abitavamo nella stessa città) su facebook diventa insostenibile. Nella prima settimana mi aveva riempito dei 15.000 test più stupidi sulla faccia della terra, mi aveva chiesto di aderire a 3800 cause tutte condivisibili - tranne una petizione per portare belen rodriguez nella sua doccia, poverina – ma che non avrebbero sortito alcun effetto.

E mentre rifiutavo tutte queste richieste, pensavo alle grasse risate di chi ha le mani in pasta o nell’acqua potabile o nelle scorie e via dicendo: “bravi, bravi giocate col computer che alle cose serie ci penso io.”

Ebbene è stato troppo. Dopo tre mesi di appartenenza a facebook, quello che sapevano di me gli altri era: che il 20 dicembre 2008 ero estasiata dalla neve (perché non immaginavo neanche quanta ne avrei vista quest’anno), che ero iscritta al club dei dipendenti da caffè, che ero mamma (perché la foto da me scelta per il profilo mi ritraeva insieme al pargolo).

Quello che gli altri presumevano di me, grazie ai test sulla vita altrui mandati in giro dal cretino, è che per tradire il mio compagno preferirei Jude Law a Gerard Depardieu (sbagliato), che se dovessi truffare lo stato cambierei i voti nella pagella di mio figlio (falso, mi piacerebbe diventasse chef o rugbysta, mi disinteresserò della pagella), che dovendo trasgredire farei follie con l’istruttrice di merengue (anche qui errore, chi ha tempo per il merengue?).

Insomma cos’è facebook e, soprattutto, perché? Come direbbe una popolare canzone, “Cosa ti manca? Cosa non hai?”.

venerdì 16 aprile 2010

Interrogatorio I

Sa cosa penso dell’amore, commissario? Che c’è un enorme equivoco. Quando qualcuno si dice in cerca dell’amore o quando si è soli e si ripensa ai giorni in cui c’era amore, sono poche e molto banali le scene che arrivano alla mente. Passeggiate in riva al mare o nei boschi, comunque mano nella mano, notti di sesso appassionato, cene romantiche e altre cose di questo genere. Non è forse vero, non è così che hanno colonizzato il nostro immaginario con la letteratura dei ciarlatani e dei farisei dell’arte? Quello che invece non ci raccontiamo ma vogliamo dall’amore è un ascolto assoluto. Non è qualcosa che somiglia a passeggiate fatte nel sole, piuttosto a confessioni infinite nel buio. Vogliamo qualcuno che stia lì, che non si stufi, che non sia mai sorpreso dalla voglia di essere altrove. Qualcuno che ripercorra infinite volte con noi gli angoli della nostra anima che ancora ci spaventano, che ci prenda per mano, una volta, due, tre e ancora e ancora. Tutte le volte che avremo bisogno. Questo è veramente irresistibile, alla persona che abbia il coraggio e la pazienza e la fibra di fare questo non sapremo rinunciare mai.

martedì 13 aprile 2010

Il mio piccolo principe


Hai due anni e sei bellissimo. Anche se ormai sai pronunciare bene la parola “automobili”, continui a chiamarle d’istinto bunbune (dal brum brum onomatopeico iniziale).
Oggi sei salito sullo scivolo del parco dalla scala più ripida e mentre ti tenevi alla corda, gridavi “Lele si arrampica come spaidemmen”.

Dormi con un panda di peluche che ti ha regalato “zia Chiachia” e che ha l’espressione un po’ rassegnata di chi subisce le tue intemperie. Lo guardo a volte e mi chiedo se resisterà alla furia degli anni. La tua voce, no. Cambierà, si trasformerà in quella profonda di un uomo. Mi incuriosisce come sarai, come sarà ogni cosa di te ma questa vocina vorrei in qualche modo trattenerla. Però un nastro o un cellulare non renderanno mai neanche lontanamente l’idea, quindi rinuncio. Del resto ti faccio anche poche foto (con grande dispiacere dei parenti) ma “le foto sono per chi non ha memoria” dice il protagonista di Tra le nuvole. E io concordo. Quello che non avrò saputo trattenere negli occhi, nelle mani, è giusto che sia affidato al fluire delle cose.

Le banconote non significano niente per te. L’altro giorno ce n’era una da 50 euro sulla scrivania (serviva per “la spesa grande”) e te l’ho sottratta appena in tempo. L’avresti presa, colorata con i pennarelli o ridotta in mille coriandoli come fai con gli altri fogli. Non riesci neanche a immaginare che per avere tante banconote come quella si possa uccidere o far cucire palloni ai bambini negli scantinati o sottrarre una persona ai suoi affetti e alla sua casa. O inquinare il mare o avvelenare gli animali di cui adesso ti diverti a imitare il verso o abbracciare e baciare chi non si ama.

Ho sempre avuto un’idea dell’infanzia molto teorica, derivata dal pensiero di Rousseau. Ma la vita vera, la concretezza del tuo esistere me ne ha confermato la validità. Non esiste cattiveria nei bambini, non c’è pregiudizio, né malizia. Un bambino cattivo sta imitando un cattivo modello, cioè un adulto. Nella tua dimensione di pura bontà, conosci il valore delle cose. Niente ti è più prezioso di una piccola festa popolata dai bambini di amici o un girotondo in cui riesci a coinvolgere tutti gli adulti a tiro.

Sorridi spesso, ultimamente proclami “mamma, papà, sono felice”, gridi “ebbiva!” e, quando ascoltiamo musica, batti le mani come un bluesman navigato. Non vuoi mai che gli amici vadano via da casa nostra e immagini che abbiamo più amici di quanto non sia vero. Pensi che dovunque andiamo c’è gente che ci offra da bere e da mangiare. Ignori che la mamma o il papà, alla fine di quelle serate in pizzeria o al pub, mentre ti viene infilato il cappottino, vanno alla cassa a pagare il conto. Mangi quasi tutto. Di “cappivo” oltre il pesce, i broccoli e “la foglia” (che sarebbe l’insalata) esistono nel mondo tutte le cose nere tranne Batman che è “mbono”.

Stamattina mi hai chiamato per mostrarmi tutto orgoglioso come hai istoriato il divano della sala con fregi di gessetto verde chiaro. Quando mi hai visto arrabbiata, ti sarai chiesto il perché e poi ti sei subito proposto per la pulizia. Mi hai tolto la spazzolina di mano e hai dichiarato “puliscio io, ci penso io”.

E a te ci pensiamo noi. Faremo del nostro meglio: continueremo a vedere elefanti ingoiati da boa al posto dei cappelli e il sorriso dello Stregatto quando tutti giurerebbero che quell’arco in cielo è soltanto la Luna.

lunedì 12 aprile 2010

Berlusconi è un infelice - parte II

E infatti non a caso di tutto quel che si dice del Cavaliere, questa è l’unica cosa che fans e detrattori omettono. Non si dice perché ammettere che Berlusconi è un infelice e che più che al carcere sta tentando di sfuggire alla paura, è l’inizio della fine del sistema in cui viviamo, la fine di Matrix la terribile matrice del mondo come lo conosciamo, magistralmente raccontata nell’omonimo film dai fratelli Andy e Larry Wachowski (prima che impazzissero).

Probabilmente dire la verità non significherebbe risolvere il conflitto d’interessi, sconfiggere il monopolio dell’informazione e avere la meglio in tutte quelle battaglie come i democratici e le persone di buon senso si augurano. Significherebbe altro: vincere la guerra, smontare i meccanismi del fascismo dei consumi di cui parlava Pasolini, liberarsi dalle sue malie, poter annientare la creatura delle creature di Berlusconi e dei suoi amici.

Siamo noi l’olio che manda avanti l’ingranaggio perché siamo sicuri che dalla felicità ci separi sempre e solo un acquisto.
Poi, sarà nostra. Sarà nostra perché ostenteremo un alto tenore di vita, avremo belle case, guardaroba eleganti, multiproprietà per le vacanze, il naso perfetto, glutei sodi, una marea di amici e donne o uomini.

E allungare un po’ lo sguardo per vedere chi questa corsa all’oro l’ha già vinta può essere pericoloso quasi quanto un atto terroristico, nel senso letterale del termine cioè: seminerà terrore.
Soffermarsi sull’immagine di Berlusconi – e farlo una volta tanto non per ridere della bandana, della dentiera, dell’impianto tricologico, non per dire è un nano, è un inviato del maligno sulla terra, ecc. -, rimanere lì, su una foto qualunque che lo ritragga, senza ripiegare sullo scherno, la beffa, la battuta, cogliere dietro l’onnipresente sorriso una smorfia di dolore per non avercela fatta a disperdere il tarlo, vuol dire ammettere che stiamo correndo per niente, pensiamo di trovare avanti quello che ci siamo lasciati molto indietro.

“Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte”. Concludeva così la sua Lettera da Firenze Tiziano Terzani, un uomo che nella corsa all’oro, l’oro vero, era molto ben piazzato.

domenica 11 aprile 2010

Berlusconi è un infelice

Dell’attuale Presidente del Consiglio si è detto tutto e il contrario di tutto. Si va dall’adesione di alcuni al fan club “Meno male che Silvio c’è” all’opposto atteggiamento di altri (più numerosi?) che paradossalmente potremmo riassumere con lo stesso slogan “Meno male che Silvio c’è” altrimenti non saprei come riempire le mie giornate e a chi spalare addosso tutta la merda che mi intasa la vita.
Credo sia esperienza comune avere almeno un amico o un parente che non perde un articolo di Travaglio, un pezzo di Santoro, una vignetta, un blog, una manifestazione, una catena di Sant’Antonio via Internet tanto da chiedersi quale iniziativa dovrà prendere il Governo per distrarci dalle questioni importanti quando giungerà l’ora del Cavaliere di lasciare questo mondo.

Nell’attesa, torniamo al punto iniziale: del Premier si è detto tutto.
Tranne una cosa, che oltre a essere il Primo Ministro, il Presidente del Milan, il fondatore di Fininvest prima e Mediaset poi, il costruttore di Milano 2, il proprietario di testate giornalistiche e case editrici, l’imputato in oltre venti procedimenti giudiziari, un marito infedele, è un infelice. Come altro definire una persona che - a suo stesso dire - ha raggiunto “più obiettivi ritenuti in partenza eccessivamente ambiziosi di qualunque altra persona al mondo” e che nonostante questo si sottopone a ore di trucco, trapianto di capelli, tinture di capelli, indossa tacchi per ingannare sull’altezza e paga le donne per fare sesso?

È una persona infelice a cui i soldi (tantissimi), la fama, la visibilità, i fan club “meno male che silvio c’è” danno lo stesso sollievo che dà una limonata a chi è affetto da dissenteria cronica: un sollievo temporaneo, non reale, una panacea che nel momento stesso in cui ti regala attimi di benessere, ti sussurra all’orecchio che non durerà, che anzi è già finita, che presto dovrai inventarti qualcos’altro.

È un tarlo che ti invade la mente, le notti, le giornate. È la paura di morire che nessuna valletta giovane e procace, nessun lifting, nessuna barzelletta sporcacciona, nessuno yatch sa dissipare. È l’assenza di senso che si infila in ogni cosa, che se non è sconfitta dalla ricerca, dalla profondità, dalla capacità di collocare il significato dell’esistere in un posto in cui sia in salvo, ha già vinto in partenza.
Berlusconi non è l’unico malato di questa malattia, sia ben chiaro. Come la nera signora che ti aspetta a Samarcanda, la fuggi, la eviti, sei lì a ideare piani di salvezza per scoprire poi di averla dentro casa. Nessuno ne è esente.
Ma che ne sia affetto proprio lui – il 70° uomo più ricco del mondo nella classifica stilata dalla rivista americana Forbes – ebbene, questo è l’inizio del caos.
(to be continued)

venerdì 9 aprile 2010

Minima morale

- I’m a modern form of Robin Hood.
(Fabrizio Corona in “Videocracy” di Erik Gandini)

Questo post non nasce a caldo. Nasce da una serata di zapping televisivo di qualche settimana fa. È tardi, sono troppo stanca, niente film, saltello qua e là tra i canali. Finisco su Matrix. Fulcro della puntata è Fabrizio Corona, che è in collegamento video.

Sempre in collegamento, c’è Marina Terragni, stimata (anche da me) editorialista di “Io donna - Corriere della Sera”, già collaboratrice di testate come “Europeo”, “Epoca, “Linus”.

Di Fabrizio Corona i meno informati apprendono, grazie a una scheda riassuntiva, che è stato denunciato per guida senza patente due volte a distanza di 17 giorni; fermato mentre percorreva contromano la corsia preferenziale di via De Amicis a Milano a bordo di una Bentley in possesso del solo foglio rosa; ha collezionato multe per oltre 6000 euro alla guida di una Mini Cooper; è stato fermato dalla polizia cantonale del Canton Ticino mentre, sprovvisto di patente, sfrecciava a circa 220 chilometri orari alla guida di una Lamborghini; è stato arrestato con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata all'estorsione (77 giorni in prigione); accusato di estorsione e tentata estorsione per presunti fotoricatti ai danni di alcuni vip; condannato a 3 anni e 8 mesi di reclusione dalla quinta sezione penale del Tribunale di Milano; condannato a tre anni e 4 mesi in primo grado dal Tribunale di Torino per i presunti ricatti ai danni del calciatore della Juventus David Trezeguet; fermato con alcuni amici dalla Polizia Stradale di Orvieto dopo aver tentato di pagare in un autogrill usando banconote false (in una perquisizione nella sua casa milanese vengono rinvenute altre banconote false e una pistola di piccolo calibro); ha pagato con euro falsi anche in due bar dell'aeroporto di Fiumicino; a seguito di un'istanza di fallimento presentata dalla Mondadori Pubblicità per una fattura di 45mila Euro non pagata, la sua società Corona's srl è stata dichiarata fallita dal Tribunale di Milano; è stato iscritto nel registro degli indagati per bancarotta fraudolenta, ha malmenato un agente della Polizia Municipale; durante la permanenza a San Vittore per l'inchiesta Vallettopoli, ha corrotto con 4.000 € una guardia carceraria per farsi consegnare una macchina fotografica usa-e-getta, con la quale ha realizzato un servizio che, pubblicato su alcune riviste di gossip, gli fa guadagnare circa 20.000 €.

La stimata giornalista di cui sopra, assumendo un’aria materno-preoccupata, un po’ lo rimprovera aggiungendo però presto che lei ha capito che tipo è: è di quelli che se non sono sempre sulla cresta, si deprimono. Corona assentisce, si è proprio così, ringrazia la Terragni per la comprensione.

Fermi tutti, ché qua ci sono un paio di cose da puntualizzare. Un conto sono gli sbalzi d’umore (di cui io stessa - anche se non oltrepassando la soglia patologica - soffro), un conto è una vita spesa a inanellare reati.

Allora, se hai bisogno di un certo tasso costante di adrenalina nel sangue, puoi trovare una serie di soluzioni, anche al di là di una visita neurologica che comunque non fa mai male.
C’è il bungee jumping, c’è la Nuova Zelanda patria degli sport estremi. Ci sono i lavori di fatica che forse non aiutano l’adrenalina, ma impegnano corpo e mente per cui magari non ci pensi all’astinenza.
Perché qua mi sembra che si è perso di vista il punto e ci si muove al di sotto della soglia della morale.

Una delle ospiti in studio, addirittura, con aria seria si complimenta con il protagonista della puntata. Dice più o meno io lo ammiro, secondo me è un genio.
A questo punto urge un ritorno al dizionario. Genio, dal latino genius da gignere “generare”.
Il genio è qualcuno che crea qualcosa di nuovo, che traccia una strada fino ad allora impensabile, è qualcuno di cui l’umanità ha bisogno per fare un balzo in avanti, uno scarto quantico.

Noi non abbiamo bisogno di te, Fabrizio Corona. Non sentiamo il bisogno di gente volgare, che si esibisce, che esibisce la sua finta scaltrezza, che si monta una piccola videocamera addosso per andare in tribunale a divorziare, che snocciola perle di cinismo in discoteca del tipo fatti i cazzi tuoi ché tanto tutti si fanno i loro. Ce n’è fin troppa. Abbiamo bisogno di discrezione, lotte intime contro i propri limiti, messaggi rivoluzionari come cambia tu per primo, vedrai come cambia il tuo ambiente. Scommetti sull’umano, sul bello, sul vero che c’è in ogni persona, vedrai che sorprese.
Intanto che ci pensi su, buon bungee jumping. E un altro piccolo consiglio… Robin Hood lascialo stare.

mercoledì 7 aprile 2010

Sa di natura

Dedico queste righe a chi come me è affetto da struggente nostalgia di un mondo più genuino e salutare che sicuramente è esistito ma non è detto che noi nati dagli anni settanta in poi abbiamo mai vissuto.


Ci riconoscete perché nei supermercati sostiamo pensosamente davanti all’espositore del biologico. Stiamo registrando che tutto è nettamente più caro, ma poi concludiamo che la salute non ha prezzo e quindi acquistiamo le banane a 4 euro la confezione (ce ne sono 3).

E, se siamo donne, nonostante arriviamo a sera stravolte da un mix di lavoro, figli o fidanzati o mariti e spesa al supermarket come si diceva, ci sforziamo di fare un ciambellone perché è nostro punto d’orgoglio limitare l’uso delle merendine a colazione.

Ma soprattutto, subiamo il fascino delle erboristerie. Ce n’è una dove abito io che ha queste vetrine meravigliose, molto più seducenti del negozio di estetista che segue e dell’abbigliamento che la precede. Entriamo perché ammaliati dalle vetrine e perché vogliamo combattere il logorio della vita moderna a colpi di ginseng e rosa canina. Così alterniamo farmaci tradizionali e tarassaco per depurare il fegato, antibiotici ed echinacea nella speranza di non doverli prendere l’anno prossimo. Poi ci sono i radicali. Un amico di un mio amico rifiuta categoricamente di assumere medicinali. Si è piegato solo a un mal di denti che lo stava facendo uscire di senno, argomentando comunque che “dev’esserci qualcosa di diabolico ed estremamente dannifico. Come fa una bustina di antinfiammatorio a sottrarti all’inferno?”. Perché tu me lo chiami ovvio e salutare il fatto che un aggeggio senza fili che schiacci sull’orecchio ti metta in contatto immediato con l’Australia? E così arriviamo al punto. Usiamo i cellulari, i blackberry, la televisione digitale, ci muoviamo in automobile, in aereo, usiamo lavastoviglie, lavatrice, phon e microonde. Perché sentiamo questo richiamo irresistibile alla presunta “naturalità” quando non c’è granché di naturale intorno a noi e, in sostanza, non sappiamo neanche cosa sia e comporti? Io continuo a sfogliare i cataloghi degli agriturismi come se a ogni pagina ci fosse una promessa di felicità. Poi il mio compagno mi ricorda che nell’ultima vacanza immersa nella campagna siciliana non ho chiuso occhio l’intera prima notte perché avevamo avvistato un paio di gechi strisciare sui muri e sono saltata in aria quando sul bucato steso ho sorpreso insetti che non so classificare. È davvero della natura che sentiamo il richiamo? O forse di quella natura mediatica che gli spot ci vendono così bene? Nei ricordi di noi nati a partire dagli anni settanta la casa di campagna dei nonni non assume in modo inquietante le fattezze del Mulino bianco? E il nonno stesso, a pensarci bene, aveva quella barba bianca e quel fisico possente? E perché, in queste giornate sfocate dal tempo trascorso, invece di giocare con noi ci propina sempre il minestrone della Valle degli Orti?

Quello che so è che ho quasi terminato la tessera punti dell’erboristeria e tra poco potrò scegliere il mio regalo tra una comoda borsa per la spesa in canapa 100%, un esame iridologico e un bibitone all’aloe che mi farà passare per sempre la gastrite. A meno che qualche intralcio sul lavoro non me la faccia tornare…

martedì 6 aprile 2010

Di tunnel, jaguar, treni e bagagli

Esistono cliniche per disintossicarsi dall’alcol, dalla coca (ina ma anche cola), dallo shopping, dal sesso. Più recenti quelle per liberarsi dai disturbi creati da Internet e social communities. Una mia amica – una veramente avanti – vuole chiedere i fondi europei per aprire una struttura che aiuti a disintossicarsi dai genitori. Per uscire da quel tunnel - da cui non puoi dirti mai veramente fuori -che è la casa dei tuoi quando devi sottostare ancora alle loro regole ma già il tuo corpo, l’anima e i pensieri cercano il largo; per svincolarsi dalla figura genitoriale e dalla sua ombra lunga gettata sulla tua vita di adulto.



- Senti, fammi un favore. Vai tu.
- Io? Perché io?
- Perché non sei sua figlia, non può farti nulla.
(My blueberry nights)

Leslie (Natalie Portman) e Beth (Norah Jones) sono davanti al Fremont Medical Center. Là dentro forse il padre di Leslie sta morendo, forse no. Non si capisce mai quando la chiama se quello che dice è la verità. E Leslie è stufa delle richieste di attenzione del padre. Delle sue attenzioni. Poco dopo racconterà a Beth che quando lei gli ha rubato la sua adorata Jaguar, tutto quello che lui ha fatto è stata cercarla per spedirle con un corriere libretto e assicurazione. “Brutto buffone, me l’ha regalata”.


Il fatto è questo: i genitori fanno troppo o troppo poco. Sono presenti (troppo) o assenti (del tutto). Non sembrano conoscere vie di mezzo. Forse perché un rapporto di questo tipo non ne permette.
Non ho trovato la soluzione all’algoritmo tanto che ho pensato bene di aggiungere una variabile al problema: sono diventata mamma anch’io.
Forse un suggerimento è nella spensieratezza con cui Francie, Peter e Jack, i tre fratelli protagonisti de “Il treno per Darjeeling” approdano a un’importante decisione.
Arrivati in ritardo alla stazione, rincorrono il Bengal Lancer, ma stentano nella corsa perché appesantiti dai bagagli ereditati dal padre: delle eleganti valigie in pelle di un marchio prestigioso che non hanno abbandonato per tutto il viaggio.
Al grido di “Le valigie di papà non ce la faranno mai!” se ne liberano, le lanciano lontano con tutto il contenuto e finalmente salgono sul treno, leggeri, risolti. Come rinati.

giovedì 1 aprile 2010

Sono qui, sotto il tavolo. E da qui scrivo. Il tavolo è il posto degli adulti. Lì sopra si riuniscono, stringono mani e affari, parlano di cose che sembrano importanti per non affrontare quelle che importanti lo sono. Consumano pasti abbondanti, versano alcolici. Sotto il tavolo è il nostro posto. Il posto di noi che a quest'ora dovremmo essere a letto. Da quaggiù le cose assumono prospettive inquietanti, niente ha la misura che il mondo vorrebbe, i bei sorrisi scoprono denti troppo affilati, le dita incrociate nascoste dalla tovaglia ammoniscono a non fidarsi dei giuramenti. La realtà perde ogni fascino, la verità è l'unica speranza di salvarsi. Vi aspetto qui, sotto il tavolo.