domenica 30 maggio 2010

Guarda che mare

Il momento non è facile. Volendo tralasciare in questa micro-analisi il quadro cultural-politico (per il quale pure ci sarebbe lungamente da piangere), rimangono i seguenti elementi:

A. non ho mai riacquistato il peso pre-gravidanza (nel senso che i chili persi non hanno mai ritrovato la strada di casa)

B. le difese immunitarie – forse anche a causa del punto A – si sono prese un triennio sabbatico (buon per loro, almeno loro si riposano)

C. è l’annus horribilis per la salute di mio figlio (dicono che prima o poi ti tocca)

D. il punto B + il punto C danno luogo a un penoso stato di salute nonostante il quale cerco di fare tutto

E. enorme stanchezza (originata dal punto D)

F. pochissime certezze tranne l’amore che certo è fantastico ma non è un caso che non si dica “due cuori, una capanna e un bebé” perché quando c’è di mezzo la prole qualcosa di solido farebbe piacere soprattutto nel conto in banca

G. grandi sogni professionali e creativi nel cantiere di famiglia (il che crea grandissimo entusiasmo, ma anche suscettibilità e molta ansia -più o meno dissimulata-)

H. almeno due idee di romanzi che bussano alla porta (soprattutto di notte) ma che non trovano spazio né tempo nelle mie giornate

Considerati i punti A, B, C,D, E, F, G e H, il momento non è facile.

Qualche settimana fa però, ho assistito a una cerimonia buddista. La persona che guidava il rito, Giovanni Littera, uomo molto in gamba, oltre che toscano (il che, per me, gli fa guadagnare dei punti), a un certo punto ha parlato del mare.

“Io sono di Livorno e uomo di scoglio. Uomo di scoglio vuol dire che 365 giorni l’anno faccio il bagno in mare. Ecco, io ho osservato questo. Che quando c’è maraccio, tutti i bagnanti radunano le cose in fretta per scappare, lamentandosi a non finire. Poi c’è qualcuno che invece aspetta il mare mosso. E quando la spiaggia è vuota, arrivan loro: i surfisti. Più le onde sono alte, più si divertono.”

Allora penso che è il mio momento, che devo prendere la tavola e andare.

giovedì 27 maggio 2010

Il dialogo, questo sconosciuto

Nel numero scorso de “Il venerdì di Repubblica” leggo una lettera nella rubrica di posta di Michele Serra. Il mittente è un madrelingua inglese, abitante in Italia, che descrive la rilassatezza da cui è stato colto quando una sera ha cambiato canale e da una puntata di Annozero (in cui urlavano tutti, compreso Santoro) è passato a un pacato dibattito tra David Cameron, Gordon Brown e Nick Clegg sulla BBC.

Beato lui, non ho fatto quest’esperienza ma immagino la si possa descrivere così: le orecchie si riposano, il cervello può assorbire le informazioni ed elaborarle, ci si sente parte della società civile (aggettivo usato non a caso).

C’è una natura dei popoli da cui non si può prescindere.
Banalmente, un italiano parlando gesticolerà sempre più di un norvegese (e un siciliano più di un piemontese), così come uno spagnolo avrà meno problemi a invitarti a fare baldoria a casa sua rispetto a un tedesco ma ne avrà di più a mettersi diligentemente in coda allo sportello.

Questa natura, insieme all’intreccio delle vicende storiche, alle condizioni economiche, al clima, alla posizione geografica, condiziona le istituzioni e i prodotti culturali dei vari popoli, come teorizzava autorevolmente Montesquieu nella sua opera "Lo spirito delle leggi" (1748).

Ci sono però cose che esulano dal folclore e dall’etnologia e che riguardano piuttosto l’etica, il rigore morale che rende gli uomini e donne tali, dovunque essi siano nati: il rispetto per l’altro e l’ascolto. La certezza che sia la validità dell’argomentazione, e non il volume della voce, la carta vincente in qualunque confronto.

Sempre Michele Serra, in una sua “Amaca” di qualche mese fa, notava come la modalità comunicativa prevalente nei dibattiti televisivi sia ripetere lo stesso incipit di una frase, senza mai stancarsi e meglio se a tono sempre più alto, finché l’interlocutore (ma a questo punto meglio definirlo avversario, se non addirittura nemico per la rabbia che trasuda dallo scontro verbale) sfinito non si getta sullo schienale del suo sedile, come un pugile che non riuscendo più a rialzarsi può essere definito k.o.

Un certo debole per l’aggressività e le voci stentoree, preferibilmente provenienti da balconi, gli italiani l’hanno già pagato a caro prezzo.

Speriamo stavolta di correggere la rotta in tempo utile.

martedì 25 maggio 2010

Giulia che sorride

Qualche anno fa, ho scritto il mio primo racconto per l'infanzia. Non era stata una mia idea. Mi era stato chiesto da un fotografo che poi, grazie a questa collaborazione, è diventato anche un amico. Lui si chiama Gughi Fassino. Lei, la bimba per cui abbiamo unito le nostre attitudini e realizzato un libro, si chiama Giulia.

Giulia è nata con la sindrome di Moebius, una malattia rara la cui caratteristica principale è la paralisi facciale permanente causata dalla ridotta o mancata formazione dei nervi cranici 6 e 7. Le persone colpite dalla Sindrome di Moebius non possono sorridere, fare smorfie, spesso non possono chiudere e/o muovere gli occhi lateralmente.

Grazie al coraggio dei genitori e alla sua forza, in un percorso che abbiamo raccontato nel volume, Giulia oggi sorride.
E ha aperto la strada perché torni il sorriso di altri bambini.
Ecco il link per saperne di più: il sorriso di Giulia

E questo il link per tuffarsi nel mondo di Gughi : http://www.gughifassino.it/

lunedì 24 maggio 2010

On the road

Tornata da un viaggio (prima del previsto per bronchite asmatica del puffo ma dice C. che è per questo e non per bigottismo che le religioni prescrivono nozze e luna di miele prima della figliolanza).

Un viaggio per lo più “gomma su asfalto” che è quello che preferisco. E per buona parte della strada ho incontrato uomini al lavoro, men at work così li indicano le segnaletiche elettroniche qualche chilometro prima.

Mentre con il mio neo-marito ingaggiavamo una gara a chi ricordava da quanti anni ci sono i lavori su quel tratto o quell’altro, mi tornava a galla un sentimento antico. Una specie di affetto profondo per quegli omini in tuta arancione e casco (alcuni, altri non lo indossano, hanno capigliature spettinate dal vento delle autostrade) che trivellano, spalano, discutono, a volte siedono ai bordi dell’autostrada. Da dove nasce quest’affetto?

Forse dall’intima certezza che il prolungarsi dei lavori non dipende da loro ma da persone molto più in alto che probabilmente siedono negli uffici con l’aria condizionata. E così li vedo come soldatini in trincea mentre i comandanti dormono tranquilli nel quartier generale.

Forse perché mi è accaduto spesso di condividere la loro condizione esistenziale: con il nulla intorno e gente di passaggio a sfiorarti.

Un giorno partirò da Bolzano, percorrerò l’Italia intera, fino alla punta più estrema, e li abbraccerò tutti.

sabato 15 maggio 2010

Just married

Sia ben chiaro, da umanisti quali siamo, l’abbiamo fatto per una pura questione linguistica.

Perché a dire ancora “il mio ragazzo”, “la mia ragazza” sembra di non esser mai venuta via dall’Alberone (chi ha le mie stesse origini geografiche, sa di cosa sto parlando…).
Le espressioni “il mio fidanzato”, “la mia fidanzata” invece fanno ripiombare nella Sicilia del Gattopardo e si rimane ad aspettare che lui si presenti in ginocchio al cospetto del futuro suocero a chiedere la mano (e non solo) di lei.

Finora ci siamo chiamati compagni… di vita, di viaggio, di avventure, di giochi.

Ma qualche giorno fa, il nostro macellaio di fiducia, mentre uscivo dal negozio si è impantanato “Grazie e mi saluti il…compagno”. Avrei anche alzato il pugno ma qui il neo-Presidente è Cota e ho già l’accento romano che non aiuta la mia sopravvivenza in Piamunt.

Comunque, siamo molto felici e da ieri, anche sposati.
Non vedo l’ora di trarre d’impaccio il macellaio.


martedì 11 maggio 2010

Sono Lauren. Ma sempre meno.

Non credo che tutte le opere siano indispensabili. Vago per le librerie e ho il rimpianto di non riuscire a leggere tanti libri, ma non tutti. Penso che gli autori imperdibili per me magari non lo sono per altri e viceversa. Per questo ci sono tanti libri in una libreria.

E poi c’è Delillo, per cui posso abbandonare ogni relativismo e affermare che è oggettivamente indispensabile, che senza la sua scrittura al mondo mancherebbe una parte. Magari non te ne accorgeresti per una vita, e poi d’un tratto, durante un viaggio, improvvisamente realizzeresti di non avere le parole per descrivere il momento che accade.

Ecco perché amo Delillo. Perché scrive cose come queste (e come il titolo).



C’è qualcosa nel vento. Ti spoglia di ogni sicurezza, ti entra dentro, continuo, implacabile, ti fa sentire la fragilità intrinseca di ogni cosa che ti circonda, la fragilità di quanto c’è di solido in centinaia di imprese – esposte, provvisorie, improvvisate.
(Delillo, Body Art, Einaudi)

lunedì 10 maggio 2010

Una statua, per cominciare

Nel mio romanzo esponevo la teoria (non mia, ma a cui aderisco) della statua. Ovvero di quel te che non sei tu, non ancora, che gli altri hanno visto prima di te e che inevitabilmente ti condiziona.
Qualcuno ti invita a ballare, per esempio. Ma è l’unica persona della festa che non ti crea sussulti ormonali. Per cui dici: no, non mi piace ballare. E da allora sarai quello che non balla. Oppure tua madre dice a un vicino: “Ma quale ingegneria. Lui ha una bella parlantina: sarà un avvocato.” E da allora tu sarai quello portato per la giurisprudenza. Non importa che potrebbe essere così davvero. Non hai avuto ancora modo di pensarci. E non importa che in seguito tu decida di corrispondere in ogni particolare alla statua o che tu voglia distruggerla. Per tutta la vita te la vedrai con quello che gli altri vedono di te. La statua.
(Homing, Edizioni clandestine)
La teoria mi convinceva, abbiamo a lungo discusso con C. del fatto che potesse essere il peso della statua a spiegare quell’attrazione fisica per i fiumi in momenti non particolarmente sereni.
La statua per me, come tutte le cose che limitano la libertà, era meglio che non ci fosse.

Invece qualche giorno fa riprendo in mano “Il codice dell’anima” di Hillmann e d’improvviso il quadro cambia. È una sensazione magnifica quando ci si scopre al riparo di una piccola certezza e qualcuno ti invita ad abbandonare l’angolino per camminare sul filo del dubbio.
I figli fuggono dal vuoto insopportabile del vivere in una famiglia senza altre fantasie che il fare compere, lavare la macchina e scambiarsi convenevoli. Il grande valore delle fantasie dei genitori, per i figli, è di obbligarli a opporsi, a riconoscere che il proprio cuore è eccentrico, diverso, insofferente dell’ombra che su di esso getta l’occhio dei familiari.
(J. Hillmann, Il codice dell’anima, Adelphi)
Il pensiero di Hillmann è complesso, ricco, assolutamente non comprimibile in un post che ha solo lo scopo di dare una suggestione. E un po’ anche quello di rasserenarmi: forse posso continuare a tralasciare la lavatrice e sognare grandi cose per mio figlio.

giovedì 6 maggio 2010

Where the wild things are

C’è un posto in cui davanti a un tramonto non si prende la macchina fotografica, ma si ulula insieme agli altri di bellezza; in cui non ci si stringe la mano ma ci si butta uno sull’altro per dormire ammucchiati; in cui non è possibile avere paura di impegnarsi perché le persone le mangeresti per quanto le ami; in cui se non vuoi che una persona parta, non l’accompagni all’aeroporto per poi piangere a casa, ma rischi di non vederla partire perché solo quando hai capito qualcosa di importante riesci a correre verso di lei.
C’è un posto magnifico in cui abitano le creature selvagge e quanto mi manca.

Where the wild things are, di Spike Jones, 2009.

martedì 4 maggio 2010

Il mio compleanno

33. Come i giri dei vecchi LP. Come gli anni di Cristo quando ha deciso che ne aveva abbastanza. Come i trentini che entrano a Trento tutti e trentatré trotterellando - chissà perché poi.

lunedì 3 maggio 2010

Siediti al sole



Mi chiedo perché si faccia un gran parlare del mal d’Africa e nessuno abbia mai nominato il mal di Lisbona.
Ci sono stata in questo periodo, qualche anno fa. Ogni tanto mi prende alle spalle una nostalgia, una mancanza. E anche quando mi trovavo lì, non era la solita euforia da viaggio.
C’era dell’altro. Come se ci avessi già vissuto e perso qualcosa. Come se voltato l’angolo, potessi incontrare i miei nonni o Pessoa. Come se l'espressione "venire alla luce" fosse stata coniata per la luce di Lisbona per cui puoi dirti veramente vivo solo avendola incontrata. Come se le tante screpolature di porte e muri avessero intuito qualcosa dell’anima.

"Siediti al sole. Abdica e sii re di te stesso". (F. Pessoa)

sabato 1 maggio 2010

Life during wartime

- Il mondo là fuori può essere duro
- Che cazzo ne sai tu del mondo là fuori che io non sappia meglio? Il nemico il più delle volte è dentro.

Sono andata a vedere Life during wartime. Il titolo ha una traduzione italiana che è Perdona e dimentica. E qui si potrebbe aprire una lunga polemica contro le traduzioni dei titoli di film in italiano, ma mi tratterrò. Fatta eccezione per questo post, in ogni altro scriverò sempre e solo il titolo originale finché non ne troverò uno tradotto in modo soddisfacente.

Perdona e dimentica, con una locandina che favorisce il malinteso, ovvero che si tratti di un film un po’ gigione di confidenze tra donne, attira di domenica pomeriggio un numero incredibile di ultrasessantenni (uomini e donne) benestanti, con stole ricamate e giacche firmate. Sono reduci dal pranzo domenicale, soddisfatti, edonisti quel tanto che li fa essere qui e non in coda per vedere la Sindone.

Io sprofondo nel mio posto un po’ basita e un po’ divertita da quanto succederà. Perché Life during wartime è l’ultimo film di Todd Solondz, il regista di Happiness. Chi l’ha visto sa di cosa parliamo. Chi non l’ha visto, forse avrà letto che il regista è stato accusato di essere un pedofilo, pervertito e quant’altro perché parla di pedofilia, perversione e quant’altro. Si cancella così l’esistenza di un filtro tra la vita e l’arte e si ignora colpevolmente il fatto che si riesce a raccontare bene (e quindi in modo utile) solo da una certa distanza. Tutto ciò mi inquieta e mi fa empatizzare con Solondz. Poi c’è questa platea così singolare. Staremo a vedere.

E quello che succede è che le storie sono sempre molto dure, sfociano nella  disperazione, nella disfatta, nella perdita di ogni senso. Ci sono delle battute che strappano il sorriso amaro. E invece ai miei vicini di posto, ma no, in realtà a tutta la sala, strappano grasse risate divertite.
La bambina urla dal bagno alla mamma che è finito il suo Xanax e la mamma le risponde ad alta voce di prendere allora metà compressa di Prozac e giù tutti a ridere.
Quindi in sostanza, si può vedere quello che si vuole vedere. Il destinatario dell'atto comunicativo che contribuisce a costruirlo, come teorizza Eco, qui addirittura si alza in piedi e fagocita l'autore per vomitare quello che si addice al suo stato d'animo domenicale. Incredibile.

Comunque il film mi è piaciuto (meno di Happiness), il titolo originale è parte della sua bellezza. La nostra è ancora vita in tempi di guerra, anche se di guerra altra. Contro l’incomprensione, l’assenza, le soluzioni facili, l’oscurità che ci abita, la mancanza di responsabilità. Sono tra quelli che coltivano grandi speranze per noi tutti ma riconosco che ogni rivoluzione non può che partire da una denuncia spietata dello status quo. Straordinaria per interpretazione e dialoghi la sequenza con Charlotte Rampling.