domenica 25 luglio 2010

Lo zen e l'arte di fare le valigie

C’è stato un periodo della mia vita (ed esattamente quello in cui facevo la pendolare Roma-Torino e viceversa) in cui mettevo nelle valigie quello che volevo, cioè soprattutto libri.

Riempivo il trolley (acquistato appositamente per il mio trasloco, insieme a un piumone con un paesaggio artico perché in famiglia ignoravamo che d’inverno a Torino nelle case sembra di stare all’equatore) di volumi: saggi, raccolte, racconti, romanzi.

Quelli che avevo accumulato a Roma in tanti anni li portavo a Torino, quelli che avevo acquistato di recente a Torino li portavo giù.

Quando ero in alt'Italia (così dice mia nonna!) mi sembrava di avere assolutamente bisogno dei tomi che ahimé erano nell’altra casa, quando ero dai miei mi mangiavo le mani per avere lasciato quel titolo nella libreria della casa piemontese.

Il tutto ha molto probabilmente a che fare con la sehnsucht romantica, il desiderio del desiderio mai soddisfatto e quella roba lì.

Oggi, qualche anno dopo, metto nelle valigie quello che posso.

Il trolley è sempre lo stesso, quello da combattimento. Ora però è affiancato da altri due borsoni, più un sacco che al check-in sparisce dentro uno dei due borsoni nella speranza di passare inosservato al controllo severo della hostess.

Non amo chi fa il furbo ma provate voi a farci stare tutto in quei pochi bagagli (sempre meno e sempre di minor peso) che le compagnie aree low cost consentono.

Cos’è questo tutto?

Magliette, pantaloncini, scarpe e ricambi perché abbiamo tolto il pannolino ma a volte non ce lo ricordiamo tempestivamente, riduttore per wc per quando invece ce lo ricordiamo, braccioli, animaletti vari galleggianti, macchinine per resistere un’ora e mezza di volo, pennarelli, libri, cappellino, biberon, scovolino per biberon, ciuccio e ricambi, peluche per la nanna, merenda, ecc. ecc. Qualche vestito e paio di scarpe di mamma e papà, ma giusto due.

Se avanza un po’ di posto (come sembra al momento, ma non è mai detto fino alla fine), infilerò un mio libro, quello che trascino qua e là da parecchio tempo. Magari tra una nanna e l’altra sotto l'ombrellone, è la volta che lo finisco.

PS. causa vacanze al mare, il blog si ferma per una decina di giorni. ci si rivede qui, quando volete.

sabato 24 luglio 2010

Parla come vivi

Approfitto del fatto che la mia amica Monica è al mare e che per il momento non mi legge, per un’altra delle mie analisi linguistiche.

Dice Monica che sono l’unica persona che quando si deprime o è in crisi esistenziale apre il dizionario.
(Da un recente studio risulta che crescere in una famiglia con più di 1500 libri sia un fattore predisponente, io ho anche l’aggravante della mamma professoressa di italiano e latino).

La parola di oggi è "preoccuparsi", anzi "pre-occuparsi".

Preoccuparsi di qualcosa prima che questa cosa accada (altrimenti si parlerebbe di “occuparsene”) vuol dire impegnare il proprio tempo e le energie mentali (talvolta anche quelle fisiche) inutilmente.

L’inutilità della preoccupazione è data dal fatto che non si può agire perché la causa non è nel presente ma in un tempo a venire.

Se si può agire in una qualsiasi direzione per evitare che il problema deflagri, si può parlare di "prevenire". Questo lo trovo utile, tranne che in senso bellico.

Da quando pratico il buddismo, oltre al rimuginare molto (che mi viene naturale sempre per lo studio di cui sopra), tento di mettere azioni cioè controtendenze, di lavorare sui miei limiti.

Ad esempio, mi impegno nel preoccuparmi meno e ho scoperto che molte delle cose che mi avrebbero potuto preoccupare in realtà non si sono mai verificate.

Visto che in questo momento si fa un gran parlare di risparmio, consiglio a tutti di provare.

lunedì 19 luglio 2010

Il senso più prezioso


“Il passato è qualcosa che (lui) può vedere ma non può toccare”.
(In the mood for love, Wong Kar-Wai)

Mi ha colpito molto in un settimanale letto di recente (D, n. 702) l’intervista fatta a Maria Grazia Chiuri, co-direttore creativo della maison Valentino.
Non l’intervista in sé, ma una particolare domanda.
“Il senso più importante?”
Risposta: “Il tatto.”

Banalmente, pensavo fosse naturale, se non doveroso, per chi si occupa di moda dire: la vista.
Questa risposta bizzarra mi ha fatto molto pensare, anche senza rendermene conto.
Capita anche a voi di avere pensieri che continuano la loro vita parassitando la vostra?
Uno esce con gli amici, va a fare la spesa, termina un lavoro importante, telefona a un parente lontano e loro intanto fanno il loro percorso e a un certo punto tornano alla coscienza.

Ecco, stamattina ho ripreso in mano “Lettere luterane” di Pasolini e ho quasi la certezza di averlo fatto perché ho letto quell’intervista giorni fa.
Mi ricordavo di un passo commovente.

“Non mi stancherò mai di ripetertelo: io, nel parlarti, potrò forse avere la forza di dimenticare ciò che mi è stato insegnato con le parole. Ma non potrò mai dimenticare ciò che mi è stato insegnato con le cose.”

E allora ho pensato alle cose che erano intorno a me quando ero bambina e a come quelle cose mi hanno insegnato.
Io le ho toccate.
Le mani di mia nonna e quelle di mio nonno, la buccia dell’uva spina che cresceva nel loro giardino, il velluto del loro divano verde e come si increspava in prossimità dei bottoni cuciti simmetricamente al centro dei cuscini, la trama un po’ ruvida di un foulard della mamma che, nei giorni di vento, finiva sulla mia testa nel tentativo di scongiurare un’otite.
La pelle rigida delle poltrone ormai in disuso provenienti dal negozio di barbiere dell’altro nonno che non ho mai conosciuto.
La carta spessa e lucida dei volumi del Reader’s Digest.
La plastica dura dei braccioli per il mare.
I capelli di mia sorella.

Ho compreso d’un tratto che quando guardo le foto, cerco di risalire a qualcosa che le foto non possono restituire.
Ed è questo, forse, che dà ragione alla Chiuri.

venerdì 16 luglio 2010

"Gli occhi parlano."


Non c’è un incipit solo. Gli inizi sono tre perché, messo di fronte alla propria vita da raccontare, Esposito non sa scegliere. Da dove si inizia a raccontare una vita? E, volendo scegliere una parte di essa, nuovamente si pone la questione: da quale frammento cominciare?

Perché l’esistenza si frantuma in mille schegge (il privato, il lavoro, l’impegno civile, l’amicizia) per scoprire, e questa è la grandezza del film a mio parere, che ogni scheggia ripete lo stesso disegno dell’altra e dell’esistenza intera.

È un film sulla passione e sull’ossessione. Che inchiodano, che costringono a tornare sempre nello stesso punto (di una stazione o dell’anima), che regalano senso alla vita e che la fanno ricominciare anche se “sarà un po’ complicato”.

È un film sul ricordo che, col trascorrere del tempo, non sapresti più dire se è tale o se è il ricordo del ricordo. Sul perdono, sulla vendetta. Sui lineamenti di una persona che in chi ha amato si sfocano e invece si stampano a fuoco nella mente di uno sconosciuto.

È un film sul coraggio, che Irene, Esposito, Sandoval declinano ognuno a modo suo.

Oscar meritato. Applausi.

domenica 11 luglio 2010

Niente di nuovo sotto il sole estivo

"Per strada tante facce non hanno un bel colore
qui chi non terrorizza
si ammala di terrore"
(F. De Andrè)

Estate, tempo di bilanci per me che ho sposato un uomo che è anche professore. L'anno per noi è quello scolastico.
Guardo indietro all'inverno da cui incredibilmente siamo usciti (a un tratto, verso maggio, non lo credevamo possibile), alle cose successe, festeggiamenti, bronchiti, viaggi e anche alle paure vissute.

Quest'anno la grande macchina di politica, corporations e media ha lavorato a pieno ritmo per creare paura.
Oltre ai sempre validi zingari, immigrati, ecc., a oggi possiamo vantare l'influenza A - che nella mia famiglia ha creato meno danni dell'intestinale e della maggiolina (il nome l'ho dato io) - e la crisi economica.

Attenzione, voglio essere chiara: non sostengo, come qualcuno anzi Qualcuno ha fatto per lungo tempo, che la crisi non c'è.
Conosco almeno tre negozi che hanno chiuso perché le cose non andavano, almeno cinque persone in cerca di lavoro, noi abbiamo ridotto vacanze, uscite, consumi...

Quello che ci tengo a sottolineare è la crisi economica non è la minaccia aliena di alcuni film. Non è il nemico che proprio sul più bello ci piomba nel giardino di casa tutto margherite e pratoline.
La crisi economica qualcuno l'ha creata. La crisi economica ha dei responsabili. Il profitto inseguito senza nessun altro criterio a fargli compagnia porta a disastri prevedibili.
Chi agita troppi fantasmi a spaventare gli altri sa di cosa parla: pensa agli scheletri nel suo armadio.

mercoledì 7 luglio 2010

Al di qua e al di là dell'Oceano

L’amico di cui nel post sotto era di ritorno dal Shortfilm festival di Palm Springs, California.

Oltre al proprio corto proiettato nel buio di una sala cinematografica in terra statunitense (che per chi fa cinema è come se Babbo Natale fosse tornato in vita), ha fatto esperienza di alcune belle visioni, altre discrete, altre ancora evitabili.

Ma soprattutto è tornato riportando la notizia che anche al di là dell’Oceano se metti un tot di energia per realizzare il tuo film (corto o lungo che sia) ne devi mettere altrettanta, se non di più, per sponsorizzarlo e sponsorizzarti, farti conoscere, fare il simpatico. In sostanza tanto più ti facevi vedere nei locali la sera, tanta più gente si vedeva in sala quando toccava a te.

Così ho pensato a feste e festini romani, alla strategia del farsi notare non per essere selezionata come velina o al grande fratello, ma semplicemente perché qualcuno legga la tua sceneggiatura, il tuo soggetto o guardi il tuo showreel.

Ricordo - per fortuna ho smesso presto di frequentare, non di scrivere - del grande interrogativo che ci dilaniava: portare il malloppo o il dvd alla serata, rischiando di infastidire il divino interlocutore mollandoglielo lì, tra un martini e una tartina, o rimandare la consegna al giorno dopo rischiando di venire dimenticati dopo il quarto mojito e essere liquidati gentilmente l’indomani dalla segretaria?

A noi, superbi o lucidi, che crediamo sia l’opera a dover parlare, a dover convincere, a noi che vorremmo uscire con gli amici e lavorare con chi è del nostro settore e non il contrario, dedico la mia amarezza e quanto segue:

“Eccellente commediante, Ward aveva scoperto che la giovialità procurava servigi preziosi in quel gioco che consiste nel farsi strada nel mondo.”
(Jack London, “The mexican”)

“Ma quando hai fatto dello scrivere la tua professione? È solo e sempre stata la tua religione. (…) Poiché questa è la tua religione, lo sai che cosa ti sarà chiesto quando morirai? Ma prima lascia che ti dica che cosa non ti sarà chiesto. Non ti sarà chiesto se stavi scrivendo qualcosa di magnifico o di commovente al momento della morte. Non ti sarà chiesto se era un racconto lungo o breve, triste o lieto, se avevi già trovato un editore o non ancora. E non ti sarà chiesto se ti sentivi in forma, scrivendolo, o meno. Non ti sarà chiesto neppure se avresti proprio desiderato scrivere quel racconto o romanzo sapendo che i tuoi giorni erano al termine (…). Sono sicuro che ti saranno poste solo due domande. Seguivi le tue stelle quando scrivevi? Ci stavi mettendo tutto il cuore?”
(J. D. Salinger, “Seymour. Introduzione)

sabato 3 luglio 2010

Una famiglia un po' allargata

C'è un amico  che in questi giorni vive e dorme con noi. Ci sono anche due puffi spagnoli e la loro mamma. C'è un casino in giro che neanche i Simpson quando avevano arrestato Marge e mettevano tutto sotto i tappeti e alla fine surfavano sulle onde di tessuto per andare da un punto all'altro della casa.. C'è sempre qualcuno da aspettare quando si esce: chi ha dimenticato il cellulare, chi gli occhiali, chi il peluche, chi il ciuccio, ecc. ecc.
E non crediate che di notte la situazione sia più tranquilla. Qualcuno russa (qualcuno che ho sposato e che per ragioni di spazio dorme in sala in queste notti), un altro tossisce, qualcuno parla nel sonno. Uno si sveglia e chiede un bicchiere d'acqua, uno a cui io porto l'acqua perché è la mia copia e quando avevo la sua età qualcun altro la portava a me...

C'è sempre qualcuno che cincischia con la moka e quindi il caffè è sempre pronto. Ci sono un sacco di cose da dirsi e raccontare e poi si ride anche dei fallimenti di cui, a pensarci da solo, ti viene proprio da piangere.
Guardando questa bella famiglia allargata, penso a quale danno ci hanno fatto e ci siamo fatti abbandonando la vita comune.
Divide et impera.
Spezzato il legame della rete, rinchiusi in appartamenti monofamiliari...li stipiamo di elettrodomestici, oggetti, vestiti per dimenticare il vuoto. Ma il vuoto non si dimentica. Lo si può solo colmare di voci, risate e sorrisi. Non conosco altro modo e...scusate devo andare a sedare una lite per il cartone animato da vedere. E, ovvio, devo portare un bicchiere d'acqua al più piccolo dei puffi.